di Rosa Mordenti
25 anni fa
se ne andava Marco Lombardo Radice, psichiatra, rivoluzionario, scrittore. Ora
a rischio è il reparto di neuropsichiatria infantile a cui aveva dedicato una
vita con i colleghi e un'intera comunità. (leggi
anche: Neuropsichiatria infantile a San
Lorenzo!)
Noi che Marco Lombardo Radice non l’abbiamo conosciuto, ma per fortuna ne
abbiamo moltissimo sentito parlare e abbiamo letto le cose splendide che ha
scritto – alcune delle quali raccolte nel libro ‘Una concretissima utopia’,
pubblicato dalle Edizioni dell’asino nel 2010 – sappiamo, ad esempio, che
quando ‘Porci con le ali’ divenne un best seller dal successo clamoroso, lui
che ne era l’autore (insieme a Livia Ravera) scelse di andarsene per un po’,
non a godersi il successo ma a fare il medico volontario in un campo profughi
palestinese in Libano. ‘Lombardone’ è morto esattamente 25 anni fa. Ha lavorato
con straordinaria dedizione nell’Istituto di Neuropsichiatria infantile di via
dei Sabelli e in ogni angolo di quel luogo ha lasciato un po’ di sé e della sua
energia. E sappiamo che è anche per non dimenticare quella energia e onorarne
la memoria che lavoratori, pazienti e famiglie resistono - insieme al quartiere
di San Lorenzo - contro i tagli sconsiderati che da anni minano il
funzionamento dell’Istituto, la qualità dei suoi interventi, la possibilità di
offrire risposte complesse e differenziate ai problemi neurologici e
psichiatrici dei bambini e degli adolescenti. Difendono, lavoratori pazienti e
quartiere, lo straordinario laboratorio che venne fondato da Giovanni Bollea,
il padre della neuropsichiatria infantile italiana, vanamente e pomposamente
celebrato proprio in queste settimane mentre il suo lavoro viene
sistematicamente offeso.
Sulla dedizione generosa di Marco Lombardo Radice esistono racconti che
sembrano leggende. Dei giorni e delle notti passati nell’Istituto senza
riposarsi mai, senza lasciare mai soli ‘i ragazzini’; dello schierarsi senza
timidezze a fianco dei lavoratori nelle battaglie sindacali; dei pazienti
portati a casa con sé quando riteneva il ritorno in famiglia prematuro o
dannoso, e perché ci sono, ha scritto, “contesti e situazioni insalvabili da
cui un minore va semplicemente tirato fuori”; della presa in carico di casi
altrove considerati disperati, che lui chiamava ‘i casacci’; dello smontare con
serena determinazione le rigidità dell’istituzione clinica, come quando
introdusse un cane in reparto per il bene di una paziente (e “sarebbe troppo
lungo raccontare l’atroce casino che una decisione del genere può scatenare”,
ha più tardi spiegato).
Una dedizione, quella di Lombardo Radice, che non aveva nulla della
concezione eroica o pacificata del servizio; era il frutto della sua libertà,
creatività, competenza. Della sua militanza: “Marco – hanno scritto Luigi
Manconi e Marino Sinibaldi nell’introduzione a Una concretissima utopia –
mostrava una possibilità, anzi una necessità diversa. Quella di costruire le
proprie forze (formarsi con quell’intreccio di accuratezza teorica ed esperienza
pratica, densità della ricerca ed empirica buona volontà) e poi contare su
quelle. Ovvero assumersi responsabilità individuali a partire da valori
collettivi”. Era il suo metodo di lavoro: “Se dai al ragazzino ciò di cui
veramente ha bisogno – ha scritto Lombardo Radice - i miracoli sono possibili
[…]. Ed è l’aspetto esaltante di questa professione, toccare con mano la
possibilità di dare vita, gioia, senso a esistenze altrimenti destinate a
perdersi. Ma ne è anche l’aspetto angoscioso, sempre più angoscioso. Perché far
ciò ha un costo personale altissimo, totale; e quando hai dato tutto di più non
puoi dare e cominciano a passarti avanti ragazzini per cui sai che la risposta
esiste ma non c’è nessuno che possa darla”.
Questa dedizione era, anche, un’idea di sanità pubblica. Esserci sempre per
i pazienti, risolvere problemi inventandosi soluzioni non previste né
prevedibili, superare burocrazie, inefficienze, inadeguatezze, consuetudini
dell’istituzione per curare, per accogliere, per assumersi la responsabilità;
adattare con fatica l’istituzione ai bisogni dei pazienti e non viceversa.
Un’idea rivoluzionaria che Lombardo Radice ha agito quotidianamente e sulla
quale ha riflettuto. La mia libertà di azione, ha scritto, si conquista “a
condizioni precise e pesanti”: “La prima è ovviamente di non avere da perdere
che le proprie catene, in concreto cioè non avere aspirazioni o ambizioni di
carriera o altro; solo così è possibile confrontarsi a muso duro, quando sia
necessario, anche con chi è ‘sopra’. La seconda è di occupare un posto, come il
mio, di responsabilità e importanza ma non appetito o appetibile […]. La terza
condizione è, modestia a parte, di essere terribilmente bravi: in altri
termini, di restituire ciò che ti prendi in gradi di libertà sotto forma di
risultati che promuovano o reclamizzino l’istituzione stessa”.
Hanno scritto gli operatori dell’Istituto di via dei Sabelli: “Quello che
ci ha lasciato in eredità è una ‘insana voglia’ di continuare ad esistere, a
non abdicare nei confronti degli adolescenti e tanto meno delle burocrazie e
dei budget aziendali, a rivendicarci l’assistenza pubblica come unica risposta
al diritto alla salute e alla soddisfazione dei bisogni di crescita, ad essere
parte attiva della sua ‘concretissima utopia’ che è ormai nostra e di tutti i
ragazzi che sono passati nel reparto e di quelli che hanno ancora bisogno di
aiuto… una scommessa/battaglia senza fine”. Ricordare Marco Lombardo Radice e
conoscerne il pensiero è perciò oggi utile e anche relativamente semplice,
perché un altro aspetto del suo modo di lavorare veniva, mi sembra di poter
dire, dallo stimolare confronto e dibattito, dall’affrontare le contraddizioni
e dare voce ai dubbi sui temi che gli interessavano: cioè raccontarsi e
scrivere molto, per condividere un sapere e una cultura sconfinati in ogni
senso, con un linguaggio semplicemente bellissimo.
Il 16 luglio, nell’anniversario della morte di Lombardo Radice, avvenuta
all’improvviso mentre era in vacanza in montagna e aveva quarant’anni, i
lavoratori e i familiari dei piccoli pazienti di via dei Sabelli hanno
convocato un’assemblea aperta nel cortile. Appeso al muro tra striscioni
colorati e bolle di sapone c’era un cartello rosa, scritto da una ex paziente
adolescente con tanto di data e firma. Diceva: “Andatevene tutti affanculo”, ma
la O finale era disegnata a forma di cuore. Che è quello che tutti gli
adolescenti del mondo pensano degli adulti che gli sono capitati in sorte, con
il cuore che riempie di senso il vaffanculo e viceversa, e che è poi il segreto
di ogni lotta che valga la pena di affrontare. Si potrebbe farne uno slogan,
perfino un augurio, ma molti non lo capirebbero; tutti quelli che hanno avuto a
che fare con ‘Lombardone’ e con la sua storia invece sì.