di Andrea Fumagalli
Non
passa giorno che il nuovo governo Renzi, forte del 40% ottenuto alle elezioni
europee, non emani una declamatoria in nome della semplificazione e delle
riforme (Costituzione, Giustizia, Tasse, Legge elettorale, ecc.). Finora alle
parole non sono seguiti i fatti. Con un’eccezione significativa: il mercato del
lavoro. In questo campo, l’attivismo del governo – bisogna riconoscerlo – è
stato particolarmente vivace e la trasformazione del decreto Poletti in legge,
come prima parte del Jobs Act, ne è la testimonianza. E’ quindi necessario
analizzare dove questo attivismo vada a parare. E il quadro che si prospetta
non promette nulla di buono per i precarie e le precarie (siano essi/e
occupati/e in modo stabile, in modo atipico o disoccupati/e). Nulla di nuovo
sotto il sole, anzi d’antico….
Il
1 luglio è iniziato il semestre europeo a guida italiana. Renzi debutta in
Europa con la dote del 40% dei voti delle ultime elezioni europee. L’11 luglio
avrebbe dovuto esserci l’importante summit sulla (dis)occupazione giovanile,
che molto saggiamente, visto il clima di accoglienza … poco benevola che si
stava preparando, è stato spostato in autunno in luogo e data da decidere
ancora. A tale appuntamento, Renzi avrebbe voluto presentarsi con la sua
ricetta, pardon, riforma salvifica. Ma a differenza delle chiacchiere che hanno
accompagnato altre declamatorie di riforme, quella sul mercato del lavoro si preannuncia
già in fase operativa. E gli effetti, purtroppo, non saranno indolori.
In
un contributo di Gianni
Giovannelli, siamo già entrati nel merito dei provvedimenti che il jobs act
ha già introdotto nel mercato del lavoro italiano. A un mese di distanza e nel
corso del dibattito sulla legge delega del legge Poletti, vogliamo cominciare a
studiarne gli effetti e a definire la strategia che il governo di Renzi,
targato PD, intende perseguire per la definitiva normalizzazione (leggi
precarizzazione) del mercato del lavoro italiano.
Precarietà
e disoccupazione: ovvero l’inesistente nesso tra flessibilità e occupazione
Analizziamo
dunque le ragioni economiche (se ci sono) che stanno alla base del Jobs Act,
partendo da tre ordini di considerazioni:
1.
Nel periodo pre-crisi, 2002-2008, gli occupati complessivi sono aumentati di
1,164 milioni di unità (vedi Tab.
a10.8, p. 76 Appendice Relazione Banca d’Italia, maggio 2014).
Contemporaneamente, gli inoccupati sono calati di 366.000. Tali dati possono
essere interpretati , come è stato fatto, alla luce degli effetti di
flessibilizzazione del mercato del lavoro indotti dagli interventi legislativi
promulgati nel 1997 (pacchetto Treu), 2001 (riforma del contratto a tempo
determinato), 2003 (Legge Maroni). Ma tali provvedimenti hanno effettivamente
creato lavoro? Analizziamo il periodo in maggior dettaglio.
In
primo luogo, occorre notare che le Unità di lavoro equivalenti (Ula) sono
aumentate di 797.000, in misura inferiore (di circa un terzo, 32%) rispetto al
numero degli occupati . Le Ula sono soprattutto concentrate nei settori del
terziario avanzato. Infatti dalla tab. 10.12 (fonte Istat) si può
osservare come nel solo comparto “Intermediazione monetaria e finanziaria;
attività immobiliari e imprenditoriali” si concentra quasi il 50% dell’aumento.
Nel settore dell’industria, il numero delle Ula addirittura si riduce,
nonostante un aumento di 67.000 occupati.
In
secondo luogo, occorre ricordare che nel periodo 2002-2008, con due sanatorie,
sono state regolarizzati poco meno di 250.000 migranti irregolari, che da
invisibili sono diventati del tutto visibili, anche per le statistiche ufficiali.
Di conseguenza, la reale crescita occupazionale risulta assai più contenuta. In
terzo luogo, analizzando la dinamica del valore aggiunto a prezzi correnti
nell’intero periodo, si può osservare che l’industria in senso stretto è
cresciuta del 12%, mentre nel comparto del terziario avanzato la crescita è
stata di oltre il 30%.
Ne consegue che la dinamica dell’occupazione risulta più strettamente correlata alla dinamica del valore aggiunto e risulta di fatto indipendente dall’incremento del processo di flessibilizzazione del lavoro. Anzi, analizzando la disparità tra dinamica occupazionale e Ula, la crescente precarizzazione del lavoro ha favorito un processo di sostituzione tra lavoro standard e lavoro non standard.
Ne consegue che la dinamica dell’occupazione risulta più strettamente correlata alla dinamica del valore aggiunto e risulta di fatto indipendente dall’incremento del processo di flessibilizzazione del lavoro. Anzi, analizzando la disparità tra dinamica occupazionale e Ula, la crescente precarizzazione del lavoro ha favorito un processo di sostituzione tra lavoro standard e lavoro non standard.
2.
Nel periodo più recente, 2009-13, in piena fase recessiva, la spinta alla
crescita dell’occupazione non solo si è del tutto bloccata, ma, in linea con la
dinamica del Pil, è visibilmente calata, sino alla perdita di quasi 1,5 milioni
di posti di lavoro. Tale declino ha favorito, pur in presenza di dati negativi,
un ulteriore processo di sostituzione tra lavoro precario e lavoro stabile.
Analizzando, infatti, i dati
Isfol, gli avviamenti al lavoro con contratto a tempo indeterminato sono
passati dal 21,6% di inizio 2009 al 15,8% del IV trim. 2013. Tra le tipologie
precarie, quella che ha principalmente beneficiato è stato proprio il Contratto
a Tempo Determinato (CTD), che il Jobs Act ha ulteriormente liberalizzato,
rendendolo acausale. Da inizio 2009 a fine 2013, la quota degli avviamenti CDT
sul totale è passata dal 63,2% al 68,5% sul territorio nazionale. Se
scomponiamo tale crescita a seconda della durata del CDT, sempre i dati Isfol
mostrano come i contratti della durata massima di un mese sono ben il 43,5% del
totale con una tendenza crescente. In altre parole, assistiamo ad una ulteriore
precarizzazione del maggior contratto precario utilizzato in Italia. Se questa
è la situazione, che bisogno c’è di liberalizzare ulteriormente il CDT?
3.
Si afferma che il Jobs Act abbia come fine la riduzione di un tasso di
disoccupazione giovanile senza precedenti (“drammatico” secondo Renzi),
superiore al 46%. I dati Eurostat, pubblicati nell’Empoyment
Outlook Ocse 2013, mostrano che in Italia nella fascia giovanile 15-24 anni
la quota di giovani occupati precari sul totale è pari al 52,9%, un valore di
poco superiore alla media dell’area Euro a 17 (51,3% ) e di poco inferiore al
corrispondente dato per la Francia e la Germania. Se però osserviamo non tanto
lo stock al 2012 ma i flussi dal 2009 al 2012, si può notare come l’Italia
abbia manifestato il tasso di crescita più elevato, pari al 3,1% annuo, contro
il -1,8% della Germania, il + 0,25% della Francia e + 0,8% della Spagna. Ciò
significa che il processo di precarizzazione dei giovani occupati è stata quasi
tre volte superiore a quella europea. Nonostante ciò, il tasso di
disoccupazione giovanile non solo non ha arrestato la sua crescita, ma la ha
accelerata!
La
brevi analisi di questi dati ufficiali convergono verso un’unica conclusione.
Non esiste un rapporto di correlazione positiva tra flessibilizzazione del
mercato del lavoro e crescita occupazionale, soprattutto giovanile. Piuttosto,
nelle fasi recessive, è ravvisabile un rapporto di correlazione inversa: quando
l’occupazione cala, l’effetto è quello di aumentare la già esistente
flessibilità del lavoro, favorendo contratti ancor più precari e peggiorando le
condizioni di vita e di reddito, oltre che di disoccupazione. Inoltre si
liberalizza un contratto, quello CTD, che è già di gran lunga il più usato e
abusato. Giustificare il Jobs Act sostenendo che occorre agevolare l’uso del
CDT (come ha fatto Poletti) cozza contro qualsiasi realtà.
Occorre
prendere atto di questa dinamica, che in Italia, a differenza di altri paesi
europei, appare accentuata da carenze strutturali del sistema produttivo e
lavorativo, sulle quali non abbiamo il tempo di soffermarci.
In
altre parole, la precarizzazione del lavoro svolge una funzione anti-ciclica
nella fasi di espansione, seppur limitata, del ciclo economico e pro-ciclica
nelle fasi di recessione.
Intervenire solo sul lato dell’offerta di lavoro – via aumento della precarietà – non è né condizione necessaria, né men che meno sufficiente, a favorire l’occupazione. Quest’ultima dipende infatti più dalla domanda di lavoro. Anche se il lavoro costasse zero (sul modello del protocollo di Expo-Comune-Sindacati, siglato a Milano il 23 luglio 2013, che prevede l’assunzione di 18.500 lavoratori volontari gratuiti e 700 tra CDT e apprendisti in deroga all’allora normativa: questa è la parte che viene recepita dal Jobs Act), le imprese non assumerebbero comunque, perché la domanda di lavoro (da parte delle imprese) non dipende dalle condizioni dell’offerta di lavoro quando queste sono quelle che sono (precarie e a basso e intermittente reddito) ma dalle prospettive di vendita e di crescita della domanda. Si può offrire lavoro gratis (pardon, come si dice, oggi: volontario) alle imprese, ma se queste non aumentano la produzione, non accettano neanche il lavoro gratis.
Intervenire solo sul lato dell’offerta di lavoro – via aumento della precarietà – non è né condizione necessaria, né men che meno sufficiente, a favorire l’occupazione. Quest’ultima dipende infatti più dalla domanda di lavoro. Anche se il lavoro costasse zero (sul modello del protocollo di Expo-Comune-Sindacati, siglato a Milano il 23 luglio 2013, che prevede l’assunzione di 18.500 lavoratori volontari gratuiti e 700 tra CDT e apprendisti in deroga all’allora normativa: questa è la parte che viene recepita dal Jobs Act), le imprese non assumerebbero comunque, perché la domanda di lavoro (da parte delle imprese) non dipende dalle condizioni dell’offerta di lavoro quando queste sono quelle che sono (precarie e a basso e intermittente reddito) ma dalle prospettive di vendita e di crescita della domanda. Si può offrire lavoro gratis (pardon, come si dice, oggi: volontario) alle imprese, ma se queste non aumentano la produzione, non accettano neanche il lavoro gratis.
La
politica economica dei due tempi (ovvero chi di precarietà ferisce, prima o poi
di precarietà perisce)
A
partire dagli anni Ottanta (dopo la sconfitta delle lotte operaie e sociali
degli anni Settanta, che tanto avevano contribuito al processo di
modernizzazione dell’Italia) e soprattutto dagli anni Novanta, si mette a fuoco
una nuova metodologia della politica economica, che si manifesterà
concretamente nei decenni a venire (perché, checché se ne creda, in Italia si
fa politica
economica): una politica economica che possiamo definire dei due tempi. Un primo tempo finalizzato all’incremento di quella competitività del sistema economico in fase di globalizzazione come unica condizione per favorire la crescita che, in un secondo tempo, avrebbe dovuto – nelle migliori intenzioni riformiste – generare le risorse per migliorare la distribuzione sociale del reddito e, quindi, il livello della domanda. Le misure per creare competitività, nel contesto della cultura economica dominante, hanno riguardato in primo luogo due direttrici: lo smantellamento dello stato sociale e la sua finanziarizzazione privata (a partire dalle pensioni, per poi via via intaccare l’istruzione e oggi la sanità) e la flessibilizzazione del mercato del lavoro, al fine di ridurre i costi di produzione e creare i profitti necessari per incoraggiare un eventuale investimento. I risultati non sono stati positivi: lungi dal favorire un ammodernamento del sistema produttivo, tale politica ha generato precarietà, stagnazione economica, progressiva erosione dei redditi da lavoro, soprattutto dopo gli accordi del 1992-93, e quindi calo della produttività. Il secondo tempo non è mai cominciato e sappiamo che, sic rebus stantibus, non comincerà mai.
economica): una politica economica che possiamo definire dei due tempi. Un primo tempo finalizzato all’incremento di quella competitività del sistema economico in fase di globalizzazione come unica condizione per favorire la crescita che, in un secondo tempo, avrebbe dovuto – nelle migliori intenzioni riformiste – generare le risorse per migliorare la distribuzione sociale del reddito e, quindi, il livello della domanda. Le misure per creare competitività, nel contesto della cultura economica dominante, hanno riguardato in primo luogo due direttrici: lo smantellamento dello stato sociale e la sua finanziarizzazione privata (a partire dalle pensioni, per poi via via intaccare l’istruzione e oggi la sanità) e la flessibilizzazione del mercato del lavoro, al fine di ridurre i costi di produzione e creare i profitti necessari per incoraggiare un eventuale investimento. I risultati non sono stati positivi: lungi dal favorire un ammodernamento del sistema produttivo, tale politica ha generato precarietà, stagnazione economica, progressiva erosione dei redditi da lavoro, soprattutto dopo gli accordi del 1992-93, e quindi calo della produttività. Il secondo tempo non è mai cominciato e sappiamo che, sic rebus stantibus, non comincerà mai.
Tutto
ciò è poi avvenuto mentre era in corso una rivoluzione copernicana nei processi
di valorizzazione capitalistica, che ha visto la produzione immateriale-cognitiva
acquisire sempre più importanza a danno di quella materiale-industriale. Oggi i
settori a maggior valore aggiunto sono quelli del terziario avanzato (come i
dati sul valore aggiunto ci confermano) e le fonti della produttività risiedono
sempre più nello sfruttamento delle economie di apprendimento e di rete,
proprio quelle economie che richiedono continuità di lavoro, sicurezza di
reddito e investimenti in tecnologia: in altre parole, una flessibilità
lavorativa che può essere produttiva solo se a monte vi è sicurezza economica
(continuità di reddito) e libero accesso ai beni comuni immateriali
(conoscenza, mobilità, socialità). Il mancato decollo del capitalismo cognitivo
in Italia è la causa principale dell’attuale crisi della produttività. L’attuale
mantra sulla crescita parte dall’ipotesi che l’eccessiva rigidità del lavoro
sia la causa prima della scarsa produttività italiana. La realtà invece ci dice
l’opposto. È semmai l’eccesso di precarietà il principale responsabile del
problema. Chi di precarietà ferisce, prima o poi di precarietà perisce.
In altre parole, per creare occupazione e maggior stabilità, invece di flex-security, è necessaria una politica di secur-flexibility.
In altre parole, per creare occupazione e maggior stabilità, invece di flex-security, è necessaria una politica di secur-flexibility.
Le
vere intenzioni del governo Renzi e il piano europeo
I
dati e le analisi riportati non sono frutto di un’attività di ricerca fatta da
alcuni autonomi e sovversivi. Chiunque si occupa del mercato del lavoro con
competenza e serietà conosce questa situazione.
Il
Jobs Act si muove quindi in una direzione antica e fallimentare. Può darsi che
ci sia qualche politico o sindacalista che in buona fede (!) senta il richiamo
delle sirene di Renzi e creda ancora che aumentando la flessibilità del mercato
del lavoro si possa favorire la crescita dell’occupazione. Ma chi ha pensato
queste provvedimenti vuole raggiungere altri obiettivi.
Cerchiamo
di capirli.
In
primo obiettivo è quello di impedire il ricorso giudiziario e evitare le cause
di lavoro, così da eliminare definitivamente una possibile arma a tutela dei
lavoratori (così come si era cominciato a fare con il Collegato Lavoro). Tale
obiettivo è stato dichiarato, probabilmente con un lapsus, dallo stesso
Ministro del lavoro Poletti in un’intervista al quotidiano L’Unità, di qualche
mese fa. Dall’osservatorio di San Precario, relativo alla Lombardia, poco meno
di un lavorator* su dieci, una volta che il contratto a termine non viene
rinnovato, fa causa al datore di lavoro. Una piccola percentuale, che però vede
il 90% dei ricorrenti ad avere ragione. Infatti, anche se il CTD prevedeva la
causale, i datori di lavori lo applicavano spesso senza giustificato motivo
facendone un abuso, proprio contando che solo una minima parte sarebbe ricorsa
alla pretura del lavoro per far valere i propri diritti. Ora, l’intento è
evitare che rimanga anche questa possibilità. Tutto ciò rientra nel progetto di
semplificazione, di cui Renzi fa una bandiera. Una semplificazione che si attua
rendendo legale ciò che prima era considerato illegale. In tal modo, uno dei
pochi strumenti rimasti – il ricorso legale (consci comunque che chi crede
troppo nella giustizia prima o poi verrà giustiziato) – per far valere le
proprie ragione, viene cancellato.
Il
secondo e pretenzioso obiettivo è disegnare un mercato del lavoro ad uso e
consumo del padronato. Ricordiamoci che nel governo Renzi fanno parte due
esponenti che ben rappresentano le lobby che definiscono la governance del
capitale (e i suo interessi) sul lavoro: il ministro Poletti, in rappresentanza
delle cooperative rosse e bianche (la distinzione oggi non esiste più) come
punto di riferimento di un sistema produttivo che proprio sulla precarietà e lo
sfruttamento del lavoro nero e migrante basa il suo potere, e la Ministra
Guidi, che invece, rappresentata gli interessi confindustriali relative alle
grandi imprese familiari che gestiscono il sistema delle commesse di Stato e
degli appalti, delle grandi opere e di quel capitalismo non manageriale,
bigotto e reazionario che è la principale causa del mancato decollo di un
capitalismo cognitivo in Italia.
Il
progetto è alquanto ambizioso.
Si
tratta di ridurre il mercato del lavoro italiano in tre segmenti principali
(ancora fa capolino, la magica parola “semplificazione”!), in grado di
procedere ad una razionalizzazione della rapporto di lavoro precario, che ne
consenta la strutturalità e la generalizzazione, in una condizione di ricatto
(e sfruttamento) continuo:
a.
si punta a fare del CTD il contratto standard per tutti/e, dai 30 anni all’età
della pensione. Tale contratto, basato su un rapporto individuale, ricattabile
e subordinato (che prevede una tutela sindacale funzionale alle esigenze delle
imprese, quando c’è) deve diventare il contratto di riferimento, in grado di
sostituire per obsolescenza il contratto a tempo indeterminato.
b.
per i giovani con minor qualifica, l’ingresso al mkt del lavoro diventa il
contratto di apprendistato, ora trasformato, in seguito alle “innovazioni”
introdotte dal Jobs Act, in semplice contratto di inserimento a bassi salari (-
30%) e minor oneri per l’impresa. Il target di riferimento sono essenzialmente
i giovani al di sotto dei 29 anni che non hanno titoli universitari
(trimestrale e magistrale).
c.
per i giovani under 29 anni che invece hanno qualifica medio-alta (laurea o
master di I e II livello) entra in azioni invece il piano “garanzia giovani”,
che utilizzando i fondi europei del progetto 2020 (1,5 miliardi di euro
stanziati per l’Italia, in vigore dal 1 maggio di quest’anno, su base
regionale), intende definire piattaforma di incontro tra domanda e offerta di
lavoro, con intermediazione di società pubblico-private garantire a livello
regionale, in cui si delineano tre percorsi di inserimento al lavoro in attesa
di poter essere poi assunti con CTD: servizio civili (semi gratuito), stage
(semi gratuito), lavoro volontario (gratuito). Il modello è quello delineato
dal contratto del 23 luglio 2013 per l’Expo di Milano, che ora viene esteso a
livello nazionale. L’obiettivo è aumentare – come si dice nel linguaggio
europeo – l’occupabilità (employability), ovvero definire occupati a costo zero
circa 600.000 giovani, così da toglierli dalle statistiche sulla disoccupazione
giovanile e consentire al governo Renzi di mostrare che nel 2015 il tasso di
disoccupazione è miracolosamente diminuito di 10-15 punti!
Questi
provvedimenti, già diventati operativi, dovranno essere accompagnati – secondo
le promesse dichiarate – anche da una riforma del sussidio di disoccupazione in
forma più allargata dell’attuale, in grado di assorbire l’Aspi e il mini-Aspi
della riforma Fornero e la cassa integrazione in deroga (comunque destinata a
finire, visto che i finanziamenti europei sono terminati) . La cassa
integrazione ordinaria estraordinaria non viene toccata, perché fa troppo
comodo alle imprese (che scaricano così sulla socialità i costi privati delle
ristrutturazioni) e ai sindacati confederali (che grazie alla gestione della
Cassa Integrazione giustificano la loro ragion d’essere).Tale sussidio di
disoccupazione è, sul modello del workfare anglosassone, fortemente
condizionato. Non stupirebbe se nella sua proposizione si proponesse di rendere
obbligo un certo numero di ore settimanali volontarie per poterne avere diritto
(come è stato discusso recentemente in Inghilterra).
Al
fine di rendere meno dolorose queste “semplificazioni”, l’attenzione mediatica
nel periodo elettorale si è fortemente concentrata sulla mancia degli 80 euro
ai soli dipendenti salariati e oggi si concentra sulla proposta di un
“contratto a tutele crescenti”. Entrambi questi provvedimenti non sono altro
che povere “foglie di fico”. 80 euro in busta paga per qualche milione di
lavoratori dipendenti (quelli che costituiscono non a caso la base della
declinante base sindacale italiana) sono un infimo risarcimento di quanto ha
ceduto il potere d’acquisto del reddito di lavoro negli ultimi venti anni a
partire dall’abolizione della scala mobile del 1993. Riguardo al contratto a
tutele crescenti (annesso che venga approvato, il che non è del tutto scontato
visto l’opposizione strumentale della Confindustria), perché mai un
imprenditore italiano dovrebbe farvi ricorso quando ha a disposizione un CTD
che può rinnovare a piacimento? E’ evidente che siamo più o meno alla farsa.
In
conclusione il piano Renzi per il lavoro, espressione dei poteri forti di
questo paese subordinati ai diktat delle oligarchie finanziarie globali,
prevede un dualismo all’interno della condizione di precarietà, che non solo
conferma di essere strutturale, esistenziale e generalizzata, ma che viene oggi
anche istituzionalizzata, sancita per legge. Anche in barba alle disposizioni
europee, che comunque, seppur solo dal punto di vista formale, dichiarano che
il contratto di lavoro di riferimento è ancora quello a tempo indeterminato.
E’
su questi temi che si sarebbe dovuto discutere l’11 luglio a Torino nel summit
europeo. Renzi, che doveva fare gli onori di casa, si sarebbe fatto portatore
di una proposta che fa perno sulla creazione di un nuovo dualismo del mercato
del lavoro: non quello tra garantito e non garantito, ma quello tra lavoro
precario, subordinato e ricattabile, e lavoro volontario e gratuito. E gli
altri paesi europei, in primis la Germania che ha già perseguito questa strada
con le varie riforme Harz che hanno introdotto i mini jobs.
E’
necessario essere coscienti di tutto ciò. Ed è, alla luce di quanto scritto,
importante che i movimenti europei siano in grado di presentare una piattaforma
propositiva di contro-potere. Una piattaforma che sancisce la sua validità
nella proposta di Commonfare, welfare del comune, centrata su tre assi
strategici:
-
Un salario minimo europeo;
- Un reddito di base incondizionato a partire da chi è al di sotto della soglia povertà relativa, in grado poi di estendersi a una platea crescente di possibili beneficiari, all’aumentare della soglia minima di riferimento: un reddito individuale, dato ai residenti e non solo ai “cittadini”, incondizionato e finanziato dalla fiscalità generale;
- L’accesso libero gratuito ai beni comuni materiali (acqua, ambiente, casa, trasporti) gestiti in maniera pubblica e collettiva e al “comune” (istruzione, sanità, socialità, mezzi monetari), in forme autogestite
- Un reddito di base incondizionato a partire da chi è al di sotto della soglia povertà relativa, in grado poi di estendersi a una platea crescente di possibili beneficiari, all’aumentare della soglia minima di riferimento: un reddito individuale, dato ai residenti e non solo ai “cittadini”, incondizionato e finanziato dalla fiscalità generale;
- L’accesso libero gratuito ai beni comuni materiali (acqua, ambiente, casa, trasporti) gestiti in maniera pubblica e collettiva e al “comune” (istruzione, sanità, socialità, mezzi monetari), in forme autogestite
Un
welfare del comune che, tramite diversi strumenti e dispositivi, sia in grado
di favorire un processo di riappropriazione di quel valore che la nostra vita
produce e quindi aprire non solo a spazi di libertà e autodeterminazione ma a
anche a possibili scenari produttivi auto-organizzati, non mercificabili,
finalizzati alla produzione dell’uomo per l’uomo.
quaderni.sanprecario.info