di Emiliano Viccaro
Da qualche
parte bisogna ripartire. Oggi bisogna difendere Gaza dall'escalation militare,
inceppare la macchina da guerra armata, ma anche quella mediatica ed economica.
Oggi dobbiamo tornare a dire, forte e chiaro, che siamo tutti palestinesi
1. Il
titolo, in taglio basso, della prima pagina del Messaggero di ieri non lascia dubbi: "Allarme
razzi a Tel Aviv". A rinforzare il titolo, una foto di una soldatessa
israeliana che mette in mostra i resti di un razzo intercettato, quegli ordigni
che fino ad oggi hanno provocato zero vittime e zero feriti. Nell'occhiello in
alto, minuscolo, la conta dei morti palestinesi: oltre 100, mentre i feriti non
si contano più. All'interno, il racconto del massacro emerge con più forza ma
accanto, come in un macabro gioco di specchi, viene pubblicata un'
"inchiesta" sulla diffusione di immagini di guerra strazianti, di
repertorio o riferite ad altri scenari di guerra, utilizzate per una
"campagna mistificatoria" contro la bontà delle operazioni di
Israele, i suoi raid chirurgici e pre-allertati. Secondo il giornale, i morti
arabi sarebbero dovuti, nella maggior parte dei casi, alla crudeltà di Hamas
che utilizza donne e bambini come "scudi umani".
Siamo allo
zenit della cattiva coscienza europea e occidentale, fatta di neo-colonialismo
e razzismo di ritorno, collusione di interessi e quintali di ignavia politica
ed etica. Le ultime notizie che giungono dai residui dell'opposizione interna
al governo di Netanyahu consegnano una firma beffarda sulla tragedia: il
quotidiano progressista Ha'aretz, grazie a una fonte interna ai servizi
segreti, riporta il resoconto di una riunione dei vertici dello Shin Bet,
tenuta lo scorso 5 giugno, in cui si ipotizzava uno scenario abbastanza
dettagliato del sequestro di tre giovani coloni, come test di prova per
l'esercito alla luce di una recente proposta di una legge che avrebbe
consentito al governo la possibilità di scambiare gli ostaggi con terroristi
condannati per omicidio.
Quale corto
circuito culturale e politico, nel nostro paese, ha prodotto un muro di gomma
cosi impenetrabile a difesa del governo di Israele, quando molti di questi
mattoni sono stati impastati da certa sotto cultura cattolica, reazionaria,
borghese profondamente antisemita? Quando si è compiuta l'inversione di marcia,
nei confronti dei movimenti e della sinistra radicale, che ha deciso di bollare
come antisemita ogni espressione di opposizione all'apartheid e all'estremismo
sionista?
2. Non serve
immergere la testa nelle paludi complottiste per cogliere i nessi mostruosi tra
cause, effetti e interessi in campo. In un senso di impunità che ricorda alcuni
precedenti storici - viene in mente il Sud Africa dell'apartheid, le guerre
imperialiste Usa, le dittature militari sud americane, i massacri polpottiani -
il governo di Israele si prepara a invadere via terra la Striscia di Gaza, una
sorta di mega campo di concentramento a cielo aperto, con la più alta densità
demografica del mondo e un livello di vita che definire infernale è alquanto
realistico.
Quasi 50
anni di "routine del male" hanno prodotto una anestetizzazione di
massa alla guerra, alla sopraffazione, al massacro di bambini, donne e uomini
di ogni età, quasi sempre civili. Israele si presenta già come stato
binazionale, con pesanti discriminazioni interne che colpiscono il 20% di
popolazione araba-israeliana, a cui è interdetta una sostanziale mobilità
sociale e l'accesso ad alcuni funzioni politiche e amministrative. Le immagini
di alcuni abitanti di Siderot, al confine con Gaza, che organizzano visioni
colettive dei bombardamenti sulla Striscia come se stessero davanti a uno
spettacolo estivo di fuochi d'artificio, dà l'idea del livello di degrado della
percezione pubblica della guerra ai palestinesi, di come l'odio e il razzismo
hanno permeato le coscienze di una storia nata, comunque la si veda, con
l'ambizione puntuale (per gli ebrei) ma universale (per tutti gli oppressi) di
mettere fine a secoli di discriminazioni.
Che fine
hanno fatto le manifestazione oceaniche di Peace Now e della sinistra
israeliana della prima Intifada? Che cosa ha prodotto l'esemplarità e il
coraggio dei "refusenik", i militari obiettori che pagano con il
carcere la loro disobbedienza? Dove si è perso il fragile ma importante
movimento "Occupy" che nel 2012 aveva aperto un varco contro le
politiche neo-liberali e di austerità di Tel Aviv? Dove sono le parole degli
intellettuali israeliani contro l'occupazione? Dove sono finiti gli studenti, i
giovani e i movimenti laici, queer e per i diritti civili?
3. Venerdi
11, tardo pomeriggio. Il presidio romano, circa 500 persone, decide di muoversi
verso via Cavour. In testa lo striscione "Roma antifascista con la
resistenza palestinese". Prima di partire, partono alcuni insulti diretti
a fotografi e giornalisti rei di rappresentare la guerra a Gaza solo dalla
parte del governo israeliano, anche se effettivamente, in questa occasione,
molti dei reporter presenti sono da sempre vicini o addirittura
"interni" ai movimenti romani. Negli stessi istanti, tre giovani
palestinesi, si inginocchiano davanti allo striscione, catturando l'attenzione
di video camere e cellulari. Iniziano a pregare, ripetendo il rituale della
devozione, piegandosi e rialzandosi più volte come prevede il rito islamico.
Davanti il divieto della polizia, il corteo fa dietro front, e nel giro di
un'ora scarsa, percorre le poche centinaia di metri fino al Colosseo, dove si
scioglie senza rumore. Pochi frame di una generosità militante che, nello
smarrimento di pratiche e di obiettivi spendibili, si traduce in uno strano mix
di impotenza politica e rappresentazione identitaria (e religiosa), distante
anni luce dalla storia straordinaria, laica e radicale, della resistenza
palestinese.
Una volta,
fino agli anni Ottanta, le icone della resistenza erano legate a un immaginario
di sinistra o rivoluzionario, rappresentate ad esempio dalla presenza in prima
fila - nei gruppi armati, nella direzione politica, nelle immagini di
propaganda - di figure femminili, laiche ed emancipate. Nella stessa Olp, le
componenti di Al Fatah (Yaser Arafat) e del Fronte popolare (George Habash), si
contendevano la guida giovanile e proletaria, ma anche colta, della lotta
nazionale.
Il crollo
del Muro di Berlino, la lunga onda restauratrice neo-liberale, le operazioni da
apprendista stregone di Israele - che a metà anni Ottanta promuove direttamente
e indirettamente la nascita di Hamas e dell'estremismo religioso per indebolire
la leadership di Arafat - ridefiniscono lo scenario politico e sociale palestinese,
che ad oggi vive una doppia debolezza non più eludibile: da una parte, la
fragilità politica, programmatica e "morale" dell'Autorità nazionale
palestinese, che esprime una flebile sovranità sulla Cisgiordania; dall'altra,
il partito-stato di Hamas, che nella Striscia di Gaza coltiva una grande
capacità di consenso anche attraverso la sedimentazione di un sistema organico
di "welfare" (per quello che può significare questo concetto in una
zona di guerra e di estrema povertà).
Come
favorire, sostenere, alimentare la riapertura di un altro, terzo, nuovo,
"spazio politico" di resistenza, nei territori occupati ma anche tra
gli arabi di Israele e nei paesi vicini? Che ruolo possono avere i movimenti di
opposizione sociale alla crisi globale, la cooperazione internazionale, i
progetti autorganizzati di diplomazia e solidarietà dal basso?
La liturgia
della testimonianza ha tramortito anche le forme militanti della solidarietà
internazionale. Dodici anni fa (sembra un secolo), l'assedio al quartier
generale di Arafat, a Ramallah, fu rotto da una straordinaria azione di
solidarietà trans-nazionale, figlio legittimo del gigantesco movimento contro
la "guerra globale e permanente", che li trovò una delle sue poche
traduzioni di pratiche e di programma. Davanti la crisi e la ridefinizione
delle forme storiche della sovranità, della rappresentanza e delle relazioni
istituzionali globali, bisognava sperimentare forme di diplomazia diretta dal
basso, in un rapporto "comune" e non più di solidarietà esterna.
Quel piano,
allora, era settato sulla dimensione della guerra guerreggiata, inaugurata nei
Balcani negli anni Novanta e proseguita da Bush negli anni zero in Afghanista e
in Iraq.
Ora si
tratta, probabilmente, di ripensare la lotta per l'autodeterminazione
palestinese dentro una nuova prospettiva "comune", legata alla crisi
economica globale, alla nuova "accumulazione originaria", ai
meccanismi di sfruttamento delle risorse e dei beni comuni naturali e
artificiali, che in Palestina si traducono con il saccheggio di terra, acqua,
risorse e forza lavoro schiavizzata. Una declinazione neo-coloniale delle
politiche neo-liberali che, senza un'opposizione di nuovo conio, interna e
globale, rischia di arrivare al punto di non ritorno, quello della pulizia
etnica.
Da qualche parte
bisogna ripartire. Oggi bisogna difendere Gaza dall'escalation militare,
inceppare la macchina da guerra armata, ma anche quella mediatica ed economica.
Oggi dobbiamo tornare a dire, forte e chiaro, che siamo tutti palestinesi.