di
Francesco M. Pezzulli
L'intera
storia della tecnologia può essere letta come storia della riduzione del tempo
di “lavoro necessario” alla produzione di merci, ossia come storia della
crescita del plusvalore…ma quest'idea di produttività ce la ritroviamo anche
nel lavoro cognitivo…La reinvenzione della catena tayloristica equivale
all'aggiornamento della stessa con le tecniche del grande fratello della
comunicazione…quanto stiamo dicendo ci riporta al tema dell'alienazione…molto
simile all'alienazione dell'operaio massa ma, se questa si presentava come
conseguenza del processo lavorativo, adesso si trova a monte del processo
(Intervento
al cantiere di autoformazione “Capitalismo cognitivo e composizione di classe”,
Università di Bologna, 15 aprile 2014)
I.
Il lavoro di Salvatore Cominu è stato per me istruttivo e ritengo sia un utile
contributo al dibattito sullo sviluppo capitalistico attuale. Il fatto che sia
stato scelto come filo conduttore di questo cantiere di autoformazione è
significativo perché è un invito a misurarci con alcune “controtendenze” che si
danno nell'ambito del passaggio storico che stiamo vivendo, dall'industriale al
globale, del quale conosciamo le caratteristiche centrali grazie a lavori di
eccezionale valore realizzati nel solco politico e teorico del cosiddetto post
operaismo.
Ci
sono segnali, avverte Salvatore, che indicano una sorta di
“reindustrializzazione” dell'assetto globale, tra le altre: le dinamiche
salariali di alcuni paesi poveri in crescita grazie al conflitto operaio; la
diminuita mobilità dei capitali rispetto al passato recente, il minor ricorso
alle delocalizzazioni, eccetera.
Questo
discorso mi ricorda quello della cosiddetta “rifeudalizzazione”. Nella storia
del capitalismo ci sono stati momenti di “rinculo” dei processi di
trasformazione in atto. Nel periodo di formazione del capitalismo industriale
la stagione di rifeudalizzazione della società e dei costumi si presentò come
una reazione energica delle classi feudali alle trasformazioni generatesi nel
corso del processo d’accumulazione originaria. Nel regno di Napoli, ad esempio,
tra il XVI e il XVII secolo, quando lo sviluppo mercantile del feudo culmina
nel processo di rifeudalizzazione, nel senso che ricostringe i rapporti agrari
di origine mercantile, o già capitalistici, nel quadro delle forme giuridiche feudali
(il fedecommesso, il maggiorasco, la commenda, eccetera). Questo stato di cose,
come ha efficacemente descritto Sereni, condusse ad «una grande guerra
contadina del Mezzogiorno». Per restare ai nostri giorni, invece, il concetto
di rifeudalizzazione è stato utilizzato anche da Toni Negri (“Corruzione, nuova
accumulazione, rifeudalizzazione”, in Common n. 0/2010), per
il quale, nella globalizzazione capitalistica:
«si
costruisce un nuovo processo di valorizzazione che si giova della nuova base
tecnologica (informatica, telematica, eccetera) e di una nuova forza lavoro
mobile e flessibile e (a un tempo) matura e riflessiva, e soprattutto altamente
cooperativa – allo scopo di frammentarla, gerarchizzarla, sottoporla al
dispotismo della misura del capitale. “Rifeudalizzare” quello che è divenuto
sempre più “comune”».
Ecco,
questo mi sembra in linea con le osservazioni di Salvatore sui blocchi che
determinati processi possono incontrare nel “passaggio” capitalistico in corso.
Tutto ciò pone dei problemi metodologici ed operativi, che riassumerei con lo
slogan che “le tendenze vanno impolpate” e cioè che le ipotesi sullo sviluppo
capitalistico vanno discriminate da processi reali e soggetti concreti. In
questo senso, il metodo politico dell'inchiesta, come veniva ricordato da
Salvatore nell'incontro di presentazione di questo cantiere, appare adeguato
perché parte da situazioni reali e soggetti concreti. In questo discorso c'è
anche un richiamo di Salvatore a non cedere a facili schematismi, dal momento
che non è raro imbattersi in analisi che fanno dipendere la realtà dalle
tendenze descritte, come ad esempio mi è capitato di leggere in un recente
libro politico sul Sud Italia, nella quale la cooperazione sociale, piuttosto
che i migranti meridionali vengono definiti “logicamente” come soggettività
operanti, con una propria “razionalità” politica. Ma noi sappiamo, con Marx,
che il metodo è induttivo, che si tratta di risalire dal particolare al
generale, dalle condizioni materiali alle ideologie. Insomma, la cooperazione
sociale, cosi come altre categorie utili al nostro lavoro politico e
scientifico, possiamo considerarle “concrete” quando si presentano come sintesi
di molteplici determinazioni, quando sono il risultato di un processo e non il
punto di partenza.
II.
Ciò premesso vorrei soffermarmi sul terzo punto affrontato da Salvatore, quello
sul lavoro cognitivo; e vorrei farlo a partire da un'esperienza d'inchiesta
politica che insieme ad alcuni compagni abbiamo condotto nei call center
calabresi con operatori telefonici outbound.
Sul
lavoro cognitivo Salvatore entra subito nel merito: Pensiamo che uno
dei campi di risostanzializzazione sia ricercato nel rendere più produttivo il
lavoro cognitivo. Il riferimento ad uno studio di tre economisti della
Columbia University offre una spiegazione di tipo tecnologico:
«le
ICT, dopo aver favorito la razionalizzazione e gli incrementi di produttività
nel lavoro impiegatizio e nelle catene logistico distributive, starebbero
“risalendo” le strategie, aggredendo funzioni e professionalità finora ritenute
non industrializzabili, in virtù dell'insostituibilità e della limitata
riproducibilità tecnica delle conoscenze incorporate da tecnici superiori e
professionisti».
Dirò
qualcosa avanti su questo tipo di spiegazione. Ma restiamo al primo punto:
“rendere più produttivo il lavoro cognitivo”. Voi sapete bene che la
produttività si misura con il tempo. Nella società industriale un operaio è
produttivo quando riesce a produrre lo stesso numero di merci in un tempo
inferiore rispetto ad un periodo precedente. Nella giornata lavorativa
dell'operaio, ad esempio una giornata di otto ore, le prime (ammettiamo tre o
quattro) sono destinate al lavoro necessario per riprodurre le condizioni
d'esistenza dell'operaio stesso, il suo salario, le seconde quattro sono
destinate al plusvalore, cioè ai profitti, agli interessi ed alle rendite. Più
restringo, grazie alla produttività, le ore di lavoro destinate a pagare i
salari, più di fatto aumentano le ore destinate a profitti, rendite e interessi.
Lo sviluppo tecnologico è stato il cardine di questa restrizione. Come dice mia
nonna novantenne, calabrese, nelle campagne vennero le macchine e se ne
andarono le persone. Cioè le macchine aumentarono cosi tanto la produttività
che la quota di lavoro necessario diminuì fortemente, generando di fatto una
disoccupazione di massa e la conseguente emigrazione. Ovviamente non solo in
Calabria, dove questo processo avvenne in ritardo, ma dovunque si è imposto il
processo d'accumulazione capitalistica l'espulsione dalle terre costituì, come
ricorda Marx nel primo libro del Capitale, il fondamento di tutto il processo.
A
mò di slogan possiamo dire che la produttività è il tramite del plusvalore.
L'intera storia della tecnologia può essere letta come storia della riduzione
del tempo di “lavoro necessario” alla produzione di merci, ossia come storia
della crescita del plusvalore.
Stiamo
parlando di lavoro operaio, siamo nel fordismo, è vero, ma quest'idea di
produttività ce la ritroviamo anche nel lavoro cognitivo. Nel lavoro
dell'operaio massa il principio della produttività fu elevato a legge dal
Taylorismo, con tutte le conseguenze in termini di sfruttamento ed alienazione
che conosciamo. Bene, i principi dell'organizzazione scientifica del lavoro di
Taylor li ritroviamo anche nei call center. Ma qui è un taylorismo aggiornato.
Vediamo come e perché.
III. Il perché è evidente: una cosa è subordinare ad una
macchina automatica un atto manuale ripetitivo, un'altra cosa è subordinare ad
una macchina informatica una prestazione mentale, linguistica e comunicativa.
Il primo obiettivo degli imprenditori dei call center, in tal senso, è proprio
quello di rendere “ripetitive” le attività degli operatori, in modo da poterle
automatizzare. Ma qui nasce un problema fondamentale, dovuto al fatto che le
attività degli operatori di call center non sono atti generici, indifferenti da
chi le compie; non possono essere svolte da chiunque, ma chiamano in causa le
qualità sociali dei soggetti che operano, qualità che derivano dalle esperienze
di vita, educazione e socializzazione degli operatori.
Ciò
che nei call center permette la valorizzazione capitalistica è la capacità di
stabilire empatia con chi hai dall'altra parte del telefono, non c'entrano
niente la forza o la resistenza fisica, mentre sono fondamentali le capacità
linguistiche, comunicative e relazionali. Si tratta di competenze e conoscenze
acquisite in ambito lavorativo e, soprattutto, extra lavorativo: saperi,
sentimenti, versatilità, reattività, eccetera. In una parola, l’insieme delle
facoltà umane che, interagendo con sistemi automatizzati e informatizzati
diventano direttamente produttive.
Queste
qualità sono indivisibili e inseparabili dal soggetto che le detiene; ma allo
stesso tempo i nostri imprenditori dei call center cercano di fare quello che
Taylor stabilì come primo principio dell'organizzazione scientifica del lavoro:
«raccogliere
decisamente tutta la massa di conoscenze che nel passato erano patrimonio dei
lavoratori e poi le registrano, le radunano e, in certi casi, le riducono a
leggi, regole e perfino formule matematiche (…) il primo di questi principi,
quindi, può essere chiamato lo sviluppo di una scienza che rimpiazzi le vecchie
conoscenze approssimative degli operai»
L’idiozia
degli organizzatori scientifici dei call center li porta a “radunare” le
conoscenze degli operatori ed a formalizzarle in degli schemi preconfezionati
di gestione delle telefonate. Tali script, ridicoli se non fosse drammatico il
cinismo col quale vengono imposti agli operatori (in quanto anch’essi fungono
da dispositivi di valutazione e controllo) indicano i “comportamenti” verbali e
non verbali da intrattenere durante ogni colloquio telefonico (sorrisi, timbro
della voce, enfasi, meraviglia, velocità/lentezza delle frasi, eccetera).
Potremmo dire che il lavoro nei call center ha qualcosa di schizofrenico: da un
lato esalta le qualità sociali degli operatori (a fondamento della
valorizzazione) da un altro lato si organizza per ingabbiare tali qualità nei
sistemi di formazione, controllo e sorveglianza. Da un lato attiva le qualità
degli operatori da un altro lato le costringe. Nelle conseguenze di questa
duplicità risiedono quelle che efficacemente avete chiamato in questo cantiere
di autoformazione “patologie e sofferenze delle soggettività”.
IV.
Quest'ultimo aspetto ci conduce al come si aggiorna il
Taylorismo nei call center. Già Taylor, nei suoi principi di organizzazione
scientifica del lavoro, avvisava che affinché la nuova organizzazione potesse
soppiantare la vecchia era necessario persuadere i lavoratori a dare il meglio
di sé:
«I
capi di maggiore esperienza, tuttavia, prospettano francamente ai loro operai
il problema di come eseguire il lavoro nella maniera più efficace ed economica.
Essi riconoscono di avere il compito di persuadere ogni
lavoratore a dedicare gli sforzi più intelligenti, la più alacre operosità,
tutte le conoscenze tradizionali di cui dispone, la sua destrezza, l'ingegno e
il buon volere – in una parola, la sua capacità d'iniziativa -, allo scopo di
realizzare per il datore di lavoro il maggior utile possibile. Il compito che
incombe alla direzione si può dire sia quello di sviluppare al massimo le
capacità d'iniziativa di ogni prestatore d'opera. Il termine “capacità
d'iniziativa” viene qui usato nella sua più ampia accezione, a significare
tutte le buone qualità che si cerca di far scaturire dai dipendenti».
Questo
ritornello si ripete anche nei call center, e sicuramente non solo nei call
center. Potremmo dire che, come le macchine automatiche hanno sottomesso
storicamente il corpo dei lavoratori, le macchine informatiche del call center
sottomettono la mente e “l'anima” degli operatori. In questo senso, per dirla
con Foucault, il call center è una organizzazione che “produce le soggettività”
ed è quindi fondamentale che la “persuasione” sia il più efficace possibile.
Nel corso dell'inchiesta, durante gli incontri con gli operatori, abbiamo visto
le varie “fasi” di questa produzione di soggettività e le diverse tecniche di
persuasione adottate: nei corsi di formazione all'ingresso; nelle riunioni con
i responsabili, nelle chiamate dei supervisor, nei richiami dei team leader.
Questi i momenti vis a vis. Ma ciò che forse più d'ogni altra cosa
influisce nella produzione di un operatore di call center è il fatto di essere
“loggato” - da quando mette piede in azienda a quando rientra a casa - al
software aziendale, il quale si preoccupa di inviare messaggi sul video
terminale inerenti il comportamento da mantenere. La reinvenzione della catena
tayloristica equivale all'aggiornamento della stessa con le tecniche del grande
fratello della comunicazione. Per chi fosse interessato ad approfondire questi
aspetti, dal momento che il tempo a disposizione in questa sede è ovviamente
limitato, mi permetto di rimandare ai resoconti d'inchiesta pubblicati e
circolanti in rete su riviste e siti di movimento[1].
Adesso
intendo semplicemente richiamare alcune “patologie e sofferenze” derivanti
dalla produzione di soggettività degli operatori di call center, a partire
dalle loro stesse parole:
«quello
dell’operatore è un lavoro che ti costringe, giornalmente, a vivere dietro una
maschera di estrema cortesia, numerosi sorrisi e costante pazienza, necessari a
gestire le innumerevoli telefonate che si ricevono nel contesto lavorativo di
forte precarietà ed alienazione».
«lo
stress, lo stress si avverte, c’è uno stress mentale ed anche fisico,
oltretutto quello mentale si riversa sul fisico, c’è chi ha crisi di pianto,
crisi di vomito, chi ha mal di testa, perché avere sempre questo fiato sul collo,
la persona che ti sta dietro e come ti sente parlare al telefono ti dice
chiudi, chiudi, chiudi…. le crisi di pianto ti vengono perché ti dicono “se tu
non produci non sei nulla, non vali niente…” così ti dicono e davanti a tutti.
Quindi già è una mortificazione che te lo dicono davanti a tutti, perché se
almeno te lo dicessero a tu per tu in altro modo non gridando davanti alla
sala…»
«Penso
di essere rimasta intrappolata, la mia paura più grande è di non riuscire più
ad uscire da lì. Questo è un lavoro che ti lega e ti fa morire. Quando ti siedi
al call center pensi sempre che sia per qualche mese, poi non ti alzi più.
Capisco la gente che a un certo punto prende una mitraglia e fa una strage»
Ne
abbiamo raccolto svariate decine di queste testimonianze. Negli incontri
d'inchiesta appena si toccava l'argomento gli operatori sembravano sfogarsi.
Voi capite bene che quanto stiamo dicendo ci riporta al tema dell'alienazione,
perché la produzione di soggettività nei call center è produzione di una
soggettività alienata; ma è bene intendersi su questo punto: è molto simile
all'alienazione dell'operaio massa ma, se questa si presentava come conseguenza
del processo lavorativo, adesso si trova a monte del processo. A tutti gli
effetti è il carburante del processo lavorativo, che non deve irregimentare
solo il corpo dei lavoratori ma catturare le loro qualità sociali,
imbrigliarle, sottrarle ed imporle come astratte e impersonali agli operatori
stessi. Nei call center, da questo punto di vista, avviene quanto riportato da
Salvatore in neretto nel suo testo: si è espropriati di capacità ed
esperienza conoscitiva
Questo
dei call center è un caso di sfruttamento del lavoro cognitivo, delle qualità
sociali degli operatori, a mezzo di alienazione. Un caso significativo di
industrializzazione del lavoro cognitivo.
V.
Concludo, sempre a proposito dei call center, discutendo della spiegazione
tecnologica dei tre economisti della Columbia alla quale Salvatore fa
riferimento che, come abbiamo visto, dicevano che le ICT starebbero “risalendo”
le strategie, aggredendo funzioni e professionalità finora ritenute non
industrializzabili.
Un
reportage di Pagina 99 curato da Nicolò Cavalli, del quale vi
ho portato una copia, conferma quanto sostenuto dagli economisti della
Columbia. Questi recensiti da Cavalli sono economisti di Oxford, ma il
risultato non cambia: 702 diverse occupazioni (attività) a breve potrebbero
essere svolte da computer, dalle cosiddette macchine intelligenti. Si tratta di
quei lavori cognitivi che hanno un alto grado di ripetitività. L'articolo di
Pagina 99 titolava: “12 milioni di posti a rischio”. Gli operatori di call
center risultano i primi della blak list degli economisti di
Oxford: la smart action di Los Angeles, infatti, ha già
sviluppato il software che li sostituirà. Si tratta di un applicativo che
impara a conoscere le preferenze del cliente sfruttando una gran massa di dati,
che è in grado di fare inferenze sui comportamenti futuri dei clienti stessi.
Insomma, fa bene Salvatore a porsi il problema della produttività del lavoro
cognitivo, se non altro perché è lo stesso problema che si pongono i
capitalisti. intenti a rendere produttivo il lavoro cognitivo.
Consiglio
la lettura di questo articolo perché da tante informazioni sulle società
(google in primis) che stanno investendo sulle learning
machine, in relazione alle quali - forse è superfluo specificare - non c'è
assolutamente nulla da rimpiangere. Abbiamo visto che i call center sono
fabbriche dell'alienazione e del malessere e quindi è bene disfarsi di un
lavoro del genere, come iniziano a disfarsene gli stessi operatori che al
conflitto preferiscono la fuga dai call center.
Eppure
il tasso di sfruttamento è incredibilmente elevato. In un caso specifico (un
piccolo call center di Cosenza, 50 operatori, che ha lavorato le commesse
Mediaset Premium) abbiamo calcolato che, mediamente, ogni operatore ha prodotto quotidianamente il
proprio compenso mensile + 300 euro. Ma il conflitto non
decolla. Lotte importanti ce ne sono state (di recente Almaviva a Palermo e
Catania) ma è come se non valesse la pena lottare per un simile lavoro, dove le
implicazioni esistenziali sono considerevoli. Anche qui il testo di Salvatore
coglie nel segno quando dice che il fatto di essere lavoratori cognitivi,
quindi di possedere delle abilità: non implica che la percezione che
hanno di se molti lavoratori sia conseguente. Nei call center calabresi
possiamo dire che è cosi, il conflitto non è finora decollato perché i
lavoratori cognitivi non si riconoscono come tali, non si riconoscono come
essenziali nella valorizzazione economica, non riconoscono le loro qualità
sociali come fondamento della ricchezza prodotta.
Dal
call center si scappa. Gli uomini scappano, i robot no. Come interpretare
questo rapporto call center –learning machine è una domanda
ovviamente ancora aperta. Possiamo parlare di una “riorganizzazione” robotica
del settore come superamento della taylorizzazione del lavoro cognitivo che è
intrinsecamente conflittuale?
In
conclusione: ci sono questioni che ci parlano di processi d'industrializzazione
del lavoro cognitivo, processi che ci riportano al tema del “tempo di lavoro”
come misura della produzione capitalistica, indipendentemente dalle qualità che
vengono espresse, anche se queste ultime sono determinanti per l'intero
processo di valorizzazione. In fin dei conti, forse, possiamo dire che misurare
la ricchezza sociale con il tempo di lavoro è il tratto industriale ancora
fondamentale, il tratto che permette al capitalismo, in ultima istanza, di
legittimarsi e sopravvivere come sistema di sfruttamento e plusvalore.
[1] http://quaderni.sanprecario.info/wp-content/uploads/2013/03/Q4-Sull-inchiesta-politica-nei-call-center-calabresi.pdf
fonte: commonware