mercoledì 30 aprile 2014

L’industrializzazione del lavoro cognitivo nei call center

di Francesco M. Pezzulli

L'intera storia della tecnologia può essere letta come storia della riduzione del tempo di “lavoro necessario” alla produzione di merci, ossia come storia della crescita del plusvalore…ma quest'idea di produttività ce la ritroviamo anche nel lavoro cognitivo…La reinvenzione della catena tayloristica equivale all'aggiornamento della stessa con le tecniche del grande fratello della comunicazione…quanto stiamo dicendo ci riporta al tema dell'alienazione…molto simile all'alienazione dell'operaio massa ma, se questa si presentava come conseguenza del processo lavorativo, adesso si trova a monte del processo
(Intervento al cantiere di autoformazione “Capitalismo cognitivo e composizione di classe”, Università di Bologna, 15 aprile 2014)

I. Il lavoro di Salvatore Cominu è stato per me istruttivo e ritengo sia un utile contributo al dibattito sullo sviluppo capitalistico attuale. Il fatto che sia stato scelto come filo conduttore di questo cantiere di autoformazione è significativo perché è un invito a misurarci con alcune “controtendenze” che si danno nell'ambito del passaggio storico che stiamo vivendo, dall'industriale al globale, del quale conosciamo le caratteristiche centrali grazie a lavori di eccezionale valore realizzati nel solco politico e teorico del cosiddetto post operaismo.
Ci sono segnali, avverte Salvatore, che indicano una sorta di “reindustrializzazione” dell'assetto globale, tra le altre: le dinamiche salariali di alcuni paesi poveri in crescita grazie al conflitto operaio; la diminuita mobilità dei capitali rispetto al passato recente, il minor ricorso alle delocalizzazioni, eccetera.
Questo discorso mi ricorda quello della cosiddetta “rifeudalizzazione”. Nella storia del capitalismo ci sono stati momenti di “rinculo” dei processi di trasformazione in atto. Nel periodo di formazione del capitalismo industriale la stagione di rifeudalizzazione della società e dei costumi si presentò come una reazione energica delle classi feudali alle trasformazioni generatesi nel corso del processo d’accumulazione originaria. Nel regno di Napoli, ad esempio, tra il XVI e il XVII secolo, quando lo sviluppo mercantile del feudo culmina nel processo di rifeudalizzazione, nel senso che ricostringe i rapporti agrari di origine mercantile, o già capitalistici, nel quadro delle forme giuridiche feudali (il fedecommesso, il maggiorasco, la commenda, eccetera). Questo stato di cose, come ha efficacemente descritto Sereni, condusse ad «una grande guerra contadina del Mezzogiorno». Per restare ai nostri giorni, invece, il concetto di rifeudalizzazione è stato utilizzato anche da Toni Negri (“Corruzione, nuova accumulazione, rifeudalizzazione”, in Common n. 0/2010), per il quale, nella globalizzazione capitalistica:
«si costruisce un nuovo processo di valorizzazione che si giova della nuova base tecnologica (informatica, telematica, eccetera) e di una nuova forza lavoro mobile e flessibile e (a un tempo) matura e riflessiva, e soprattutto altamente cooperativa – allo scopo di frammentarla, gerarchizzarla, sottoporla al dispotismo della misura del capitale. “Rifeudalizzare” quello che è divenuto sempre più “comune”».
Ecco, questo mi sembra in linea con le osservazioni di Salvatore sui blocchi che determinati processi possono incontrare nel “passaggio” capitalistico in corso. Tutto ciò pone dei problemi metodologici ed operativi, che riassumerei con lo slogan che “le tendenze vanno impolpate” e cioè che le ipotesi sullo sviluppo capitalistico vanno discriminate da processi reali e soggetti concreti. In questo senso, il metodo politico dell'inchiesta, come veniva ricordato da Salvatore nell'incontro di presentazione di questo cantiere, appare adeguato perché parte da situazioni reali e soggetti concreti. In questo discorso c'è anche un richiamo di Salvatore a non cedere a facili schematismi, dal momento che non è raro imbattersi in analisi che fanno dipendere la realtà dalle tendenze descritte, come ad esempio mi è capitato di leggere in un recente libro politico sul Sud Italia, nella quale la cooperazione sociale, piuttosto che i migranti meridionali vengono definiti “logicamente” come soggettività operanti, con una propria “razionalità” politica. Ma noi sappiamo, con Marx, che il metodo è induttivo, che si tratta di risalire dal particolare al generale, dalle condizioni materiali alle ideologie. Insomma, la cooperazione sociale, cosi come altre categorie utili al nostro lavoro politico e scientifico, possiamo considerarle “concrete” quando si presentano come sintesi di molteplici determinazioni, quando sono il risultato di un processo e non il punto di partenza.

II. Ciò premesso vorrei soffermarmi sul terzo punto affrontato da Salvatore, quello sul lavoro cognitivo; e vorrei farlo a partire da un'esperienza d'inchiesta politica che insieme ad alcuni compagni abbiamo condotto nei call center calabresi con operatori telefonici outbound.
Sul lavoro cognitivo Salvatore entra subito nel merito: Pensiamo che uno dei campi di risostanzializzazione sia ricercato nel rendere più produttivo il lavoro cognitivo. Il riferimento ad uno studio di tre economisti della Columbia University offre una spiegazione di tipo tecnologico:
«le ICT, dopo aver favorito la razionalizzazione e gli incrementi di produttività nel lavoro impiegatizio e nelle catene logistico distributive, starebbero “risalendo” le strategie, aggredendo funzioni e professionalità finora ritenute non industrializzabili, in virtù dell'insostituibilità e della limitata riproducibilità tecnica delle conoscenze incorporate da tecnici superiori e professionisti».
Dirò qualcosa avanti su questo tipo di spiegazione. Ma restiamo al primo punto: “rendere più produttivo il lavoro cognitivo”. Voi sapete bene che la produttività si misura con il tempo. Nella società industriale un operaio è produttivo quando riesce a produrre lo stesso numero di merci in un tempo inferiore rispetto ad un periodo precedente. Nella giornata lavorativa dell'operaio, ad esempio una giornata di otto ore, le prime (ammettiamo tre o quattro) sono destinate al lavoro necessario per riprodurre le condizioni d'esistenza dell'operaio stesso, il suo salario, le seconde quattro sono destinate al plusvalore, cioè ai profitti, agli interessi ed alle rendite. Più restringo, grazie alla produttività, le ore di lavoro destinate a pagare i salari, più di fatto aumentano le ore destinate a profitti, rendite e interessi. Lo sviluppo tecnologico è stato il cardine di questa restrizione. Come dice mia nonna novantenne, calabrese, nelle campagne vennero le macchine e se ne andarono le persone. Cioè le macchine aumentarono cosi tanto la produttività che la quota di lavoro necessario diminuì fortemente, generando di fatto una disoccupazione di massa e la conseguente emigrazione. Ovviamente non solo in Calabria, dove questo processo avvenne in ritardo, ma dovunque si è imposto il processo d'accumulazione capitalistica l'espulsione dalle terre costituì, come ricorda Marx nel primo libro del Capitale, il fondamento di tutto il processo.
A mò di slogan possiamo dire che la produttività è il tramite del plusvalore. L'intera storia della tecnologia può essere letta come storia della riduzione del tempo di “lavoro necessario” alla produzione di merci, ossia come storia della crescita del plusvalore.  
Stiamo parlando di lavoro operaio, siamo nel fordismo, è vero, ma quest'idea di produttività ce la ritroviamo anche nel lavoro cognitivo. Nel lavoro dell'operaio massa il principio della produttività fu elevato a legge dal Taylorismo, con tutte le conseguenze in termini di sfruttamento ed alienazione che conosciamo. Bene, i principi dell'organizzazione scientifica del lavoro di Taylor li ritroviamo anche nei call center. Ma qui è un taylorismo aggiornato. Vediamo come e perché.
III. Il perché è evidente: una cosa è subordinare ad una macchina automatica un atto manuale ripetitivo, un'altra cosa è subordinare ad una macchina informatica una prestazione mentale, linguistica e comunicativa. Il primo obiettivo degli imprenditori dei call center, in tal senso, è proprio quello di rendere “ripetitive” le attività degli operatori, in modo da poterle automatizzare. Ma qui nasce un problema fondamentale, dovuto al fatto che le attività degli operatori di call center non sono atti generici, indifferenti da chi le compie; non possono essere svolte da chiunque, ma chiamano in causa le qualità sociali dei soggetti che operano, qualità che derivano dalle esperienze di vita, educazione e socializzazione degli operatori.
Ciò che nei call center permette la valorizzazione capitalistica è la capacità di stabilire empatia con chi hai dall'altra parte del telefono, non c'entrano niente la forza o la resistenza fisica, mentre sono fondamentali le capacità linguistiche, comunicative e relazionali. Si tratta di competenze e conoscenze acquisite in ambito lavorativo e, soprattutto, extra lavorativo: saperi, sentimenti, versatilità, reattività, eccetera. In una parola, l’insieme delle facoltà umane che, interagendo con sistemi automatizzati e informatizzati diventano direttamente produttive.
Queste qualità sono indivisibili e inseparabili dal soggetto che le detiene; ma allo stesso tempo i nostri imprenditori dei call center cercano di fare quello che Taylor stabilì come primo principio dell'organizzazione scientifica del lavoro:
«raccogliere decisamente tutta la massa di conoscenze che nel passato erano patrimonio dei lavoratori e poi le registrano, le radunano e, in certi casi, le riducono a leggi, regole e perfino formule matematiche (…) il primo di questi principi, quindi, può essere chiamato lo sviluppo di una scienza che rimpiazzi le vecchie conoscenze approssimative degli operai»
L’idiozia degli organizzatori scientifici dei call center li porta a “radunare” le conoscenze degli operatori ed a formalizzarle in degli schemi preconfezionati di gestione delle telefonate. Tali script, ridicoli se non fosse drammatico il cinismo col quale vengono imposti agli operatori (in quanto anch’essi fungono da dispositivi di valutazione e controllo) indicano i “comportamenti” verbali e non verbali da intrattenere durante ogni colloquio telefonico (sorrisi, timbro della voce, enfasi, meraviglia, velocità/lentezza delle frasi, eccetera). Potremmo dire che il lavoro nei call center ha qualcosa di schizofrenico: da un lato esalta le qualità sociali degli operatori (a fondamento della valorizzazione) da un altro lato si organizza per ingabbiare tali qualità nei sistemi di formazione, controllo e sorveglianza. Da un lato attiva le qualità degli operatori da un altro lato le costringe. Nelle conseguenze di questa duplicità risiedono quelle che efficacemente avete chiamato in questo cantiere di autoformazione “patologie e sofferenze delle soggettività”.

IV. Quest'ultimo aspetto ci conduce al come si aggiorna il Taylorismo nei call center. Già Taylor, nei suoi principi di organizzazione scientifica del lavoro, avvisava che affinché la nuova organizzazione potesse soppiantare la vecchia era necessario persuadere i lavoratori a dare il meglio di sé:
«I capi di maggiore esperienza, tuttavia, prospettano francamente ai loro operai il problema di come eseguire il lavoro nella maniera più efficace ed economica. Essi riconoscono di avere il compito di persuadere ogni lavoratore a dedicare gli sforzi più intelligenti, la più alacre operosità, tutte le conoscenze tradizionali di cui dispone, la sua destrezza, l'ingegno e il buon volere – in una parola, la sua capacità d'iniziativa -, allo scopo di realizzare per il datore di lavoro il maggior utile possibile. Il compito che incombe alla direzione si può dire sia quello di sviluppare al massimo le capacità d'iniziativa di ogni prestatore d'opera. Il termine “capacità d'iniziativa” viene qui usato nella sua più ampia accezione, a significare tutte le buone qualità che si cerca di far scaturire dai dipendenti».
Questo ritornello si ripete anche nei call center, e sicuramente non solo nei call center. Potremmo dire che, come le macchine automatiche hanno sottomesso storicamente il corpo dei lavoratori, le macchine informatiche del call center sottomettono la mente e “l'anima” degli operatori. In questo senso, per dirla con Foucault, il call center è una organizzazione che “produce le soggettività” ed è quindi fondamentale che la “persuasione” sia il più efficace possibile. Nel corso dell'inchiesta, durante gli incontri con gli operatori, abbiamo visto le varie “fasi” di questa produzione di soggettività e le diverse tecniche di persuasione adottate: nei corsi di formazione all'ingresso; nelle riunioni con i responsabili, nelle chiamate dei supervisor, nei richiami dei team leader. Questi i momenti vis a vis. Ma ciò che forse più d'ogni altra cosa influisce nella produzione di un operatore di call center è il fatto di essere “loggato” - da quando mette piede in azienda a quando rientra a casa - al software aziendale, il quale si preoccupa di inviare messaggi sul video terminale inerenti il comportamento da mantenere. La reinvenzione della catena tayloristica equivale all'aggiornamento della stessa con le tecniche del grande fratello della comunicazione. Per chi fosse interessato ad approfondire questi aspetti, dal momento che il tempo a disposizione in questa sede è ovviamente limitato, mi permetto di rimandare ai resoconti d'inchiesta pubblicati e circolanti in rete su riviste e siti di movimento[1].
Adesso intendo semplicemente richiamare alcune “patologie e sofferenze” derivanti dalla produzione di soggettività degli operatori di call center, a partire dalle loro stesse parole:
«quello dell’operatore è un lavoro che ti costringe, giornalmente, a vivere dietro una maschera di estrema cortesia, numerosi sorrisi e costante pazienza, necessari a gestire le innumerevoli telefonate che si ricevono nel contesto lavorativo di forte precarietà ed alienazione».
«lo stress, lo stress si avverte, c’è uno stress mentale ed anche fisico, oltretutto quello mentale si riversa sul fisico, c’è chi ha crisi di pianto, crisi di vomito, chi ha mal di testa, perché avere sempre questo fiato sul collo, la persona che ti sta dietro e come ti sente parlare al telefono ti dice chiudi, chiudi, chiudi…. le crisi di pianto ti vengono perché ti dicono “se tu non produci non sei nulla, non vali niente…” così ti dicono e davanti a tutti. Quindi già è una mortificazione che te lo dicono davanti a tutti, perché se almeno te lo dicessero a tu per tu in altro modo non gridando davanti alla sala…»
«Penso di essere rimasta intrappolata, la mia paura più grande è di non riuscire più ad uscire da lì. Questo è un lavoro che ti lega e ti fa morire. Quando ti siedi al call center pensi sempre che sia per qualche mese, poi non ti alzi più. Capisco la gente che a un certo punto prende una mitraglia e fa una strage»
Ne abbiamo raccolto svariate decine di queste testimonianze. Negli incontri d'inchiesta appena si toccava l'argomento gli operatori sembravano sfogarsi. Voi capite bene che quanto stiamo dicendo ci riporta al tema dell'alienazione, perché la produzione di soggettività nei call center è produzione di una soggettività alienata; ma è bene intendersi su questo punto: è molto simile all'alienazione dell'operaio massa ma, se questa si presentava come conseguenza del processo lavorativo, adesso si trova a monte del processo. A tutti gli effetti è il carburante del processo lavorativo, che non deve irregimentare solo il corpo dei lavoratori ma catturare le loro qualità sociali, imbrigliarle, sottrarle ed imporle come astratte e impersonali agli operatori stessi. Nei call center, da questo punto di vista, avviene quanto riportato da Salvatore in neretto nel suo testo: si è espropriati di capacità ed esperienza conoscitiva
Questo dei call center è un caso di sfruttamento del lavoro cognitivo, delle qualità sociali degli operatori, a mezzo di alienazione. Un caso significativo di industrializzazione del lavoro cognitivo.

V. Concludo, sempre a proposito dei call center, discutendo della spiegazione tecnologica dei tre economisti della Columbia alla quale Salvatore fa riferimento che, come abbiamo visto, dicevano che le ICT starebbero “risalendo” le strategie, aggredendo funzioni e professionalità finora ritenute non industrializzabili.
Un reportage di Pagina 99 curato da Nicolò Cavalli, del quale vi ho portato una copia, conferma quanto sostenuto dagli economisti della Columbia. Questi recensiti da Cavalli sono economisti di Oxford, ma il risultato non cambia: 702 diverse occupazioni (attività) a breve potrebbero essere svolte da computer, dalle cosiddette macchine intelligenti. Si tratta di quei lavori cognitivi che hanno un alto grado di ripetitività. L'articolo di Pagina 99 titolava: “12 milioni di posti a rischio”. Gli operatori di call center risultano i primi della blak list degli economisti di Oxford: la smart action di Los Angeles, infatti, ha già sviluppato il software che li sostituirà. Si tratta di un applicativo che impara a conoscere le preferenze del cliente sfruttando una gran massa di dati, che è in grado di fare inferenze sui comportamenti futuri dei clienti stessi. Insomma, fa bene Salvatore a porsi il problema della produttività del lavoro cognitivo, se non altro perché è lo stesso problema che si pongono i capitalisti. intenti a rendere produttivo il lavoro cognitivo.
Consiglio la lettura di questo articolo perché da tante informazioni sulle società (google in primis) che stanno investendo sulle learning machine, in relazione alle quali - forse è superfluo specificare - non c'è assolutamente nulla da rimpiangere. Abbiamo visto che i call center sono fabbriche dell'alienazione e del malessere e quindi è bene disfarsi di un lavoro del genere, come iniziano a disfarsene gli stessi operatori che al conflitto preferiscono la fuga dai call center.
Eppure il tasso di sfruttamento è incredibilmente elevato. In un caso specifico (un piccolo call center di Cosenza, 50 operatori, che ha lavorato le commesse Mediaset Premium) abbiamo calcolato che, mediamente, ogni operatore ha prodotto quotidianamente il proprio compenso mensile + 300 euro. Ma il conflitto non decolla. Lotte importanti ce ne sono state (di recente Almaviva a Palermo e Catania) ma è come se non valesse la pena lottare per un simile lavoro, dove le implicazioni esistenziali sono considerevoli. Anche qui il testo di Salvatore coglie nel segno quando dice che il fatto di essere lavoratori cognitivi, quindi di possedere delle abilità: non implica che la percezione che hanno di se molti lavoratori sia conseguente. Nei call center calabresi possiamo dire che è cosi, il conflitto non è finora decollato perché i lavoratori cognitivi non si riconoscono come tali, non si riconoscono come essenziali nella valorizzazione economica, non riconoscono le loro qualità sociali come fondamento della ricchezza prodotta.
Dal call center si scappa. Gli uomini scappano, i robot no. Come interpretare questo rapporto call center –learning machine è una domanda ovviamente ancora aperta. Possiamo parlare di una “riorganizzazione” robotica del settore come superamento della taylorizzazione del lavoro cognitivo che è intrinsecamente conflittuale?
In conclusione: ci sono questioni che ci parlano di processi d'industrializzazione del lavoro cognitivo, processi che ci riportano al tema del “tempo di lavoro” come misura della produzione capitalistica, indipendentemente dalle qualità che vengono espresse, anche se queste ultime sono determinanti per l'intero processo di valorizzazione. In fin dei conti, forse, possiamo dire che misurare la ricchezza sociale con il tempo di lavoro è il tratto industriale ancora fondamentale, il tratto che permette al capitalismo, in ultima istanza, di legittimarsi e sopravvivere come sistema di sfruttamento e plusvalore.


fonte: commonware