di Chiara Saraceno
Social compact/
Gli occhi di Bruxelles sono tutti per il deficit di bilancio. Ma il
deficit sociale di molti paesi con i tassi di povertà assoluta che aumentano,
la disoccupazione che cresce, le politiche di conciliazione che non vengono
neppure più nominate, non produce richiami né ri-pensamenti delle politiche di
austerità
I
welfare state nazionali in Europa sono attraversati da più di una crisi, non
riducibili solo a quella finanziaria. In primo luogo, e forse da più tempo, vi
è una crisi di efficacia e appropriatezza a fronte dei mutamenti avvenuti negli
assetti famigliari, demografici, di mercato del lavoro ed economici. Questa
crisi a sua volta produce tensioni tra il bisogno di innovare e modificare in
parte i modelli di welfare consolidati, per renderli più adeguati alle nuove
circostanze, e le resistenze che derivano non solo da diritti, e talvolta
privilegi, acquisiti, ma dal timore che l’innovazione si traduca semplicemente
in una riduzione generalizzata di diritti, senza che ciò produca miglioramenti
complessivi e neppure maggiore equità. Si tratta, perciò, anche di una crisi di
legittimità. La terza crisi è finanziaria, in un contesto in cui i governi
nazionali hanno poco potere decisionale. Questa terza crisi, infatti, è l’esito
di tre fenomeni distinti: a) la riduzione delle ricorse a causa della crisi
iniziata a fine 2009 e tuttora perdurante; b) l’indebolimento della capacità
dei governi nazionali di controllare il flusso delle risorse a causa della
globalizzazione e di quello che è stato chiamato footlose capitalism,
il capitalismo senza territorio; per i paesi dell’eurozona, gli squilibri
creati da un’unione monetaria senza unione politica e fiscale e dall’acuirsi
delle divisioni tra i paesi cosiddetti creditori e quelli cosiddetti debitori.
Non vi è dubbio che la crisi finanziaria acuisce le prime due, riducendo lo
spazio per compensazioni e compromessi. Il ruolo di primo piano che tuttavia ha
assunto nel discorso pubblico e nelle decisioni che informano le politiche
nazionali ed europee, rischia di mettere in ombra le altre due, o di ridurle a
semplici esiti di una mancanza di risorse, senza, quindi, permettere di
affrontare i problemi da cui originano, indipendentemente dalla carenza di
risorse.
Allo
stesso tempo, il ruolo assunto dall’Unione Europea nel dettare le regole per
affrontare la crisi ha ulteriormente indebolito lo spazio che hanno le
politiche sociali e la costruzione di un modello sociale europeo nella
costruzione della Unione.
Ovviamente,
sia l’intensità di ciascuna di queste tre crisi distinte, il grado della loro
interdipendenza, le risorse per affrontarli variano da paese a paese sulla base
non solo della salute delle loro economie e del potere negoziale che hanno
all’interno dell’Unione Europea, ma anche della lungimiranza che hanno avuto nel
recente passato nell’affrontare la prima crisi. I paesi, infatti, che da più
tempo si sono attrezzati per rispondere all’aumento nella partecipazione delle
donne al mercato del lavoro, alla richiesta di maggiore eguaglianza tra uomini
e donne, ai bisogni provocati dall’invecchiamento, alla necessità di non
sprecare le proprie risorse umane creando condizioni di pari opportunità tra i
bambini per correggere le disuguaglianze nell’origine famigliare, che hanno
capito che un mercato del lavoro mobile e flessibile aveva bisogno di
rafforzare e modificare le proprie reti di protezione, sono stati colti meno
impreparati dalla crisi, con strumenti più adeguati. Anche se in tutti i paesi
vi sono tensioni attorno a se e come ridefinire gli strumenti di welfare.
In
questo contesto, non solo le politiche di austerità, ma il discorso con cui
sono state argomentate a livello Ue, il diverso uso delle sanzioni e dei
richiami che vengono fatti se si sfora il patto di stabilità piuttosto che se
non si realizzano gli obiettivi sociali ha fortemente indebolito i welfare
state già in partenza più deboli e più bisognosi di riforma, come quello
italiano, facendo passare l’idea che il welfare state sia la causa, se non
della crisi tout court, del debito pubblico.
Gli occhi di Bruxelles sono tutti
per il deficit di bilancio. Il deficit sociale di alcuni paesi, tra cui
l’Italia, con i tassi di povertà assoluta e deprivazione che aumentano, la
disoccupazione che cresce, le politiche di conciliazione che non vengono
neppure più nominate – benché vistosamente lontani dagli obiettivi di Europa
2020 – non produce né richiami, né ri-pensamenti della politica di austerità.
fonte: www.sbilanciamoci.info