di
Gianvito Brindisi
“da
quando abbiamo fatto il nostro ingresso nella cosiddetta «crisi», vale a dire
dai primi anni Settanta, l’insicurezza sociale è tornata. Questo ritorno è la
conseguenza della fragilizzazione dei supporti (delle protezioni e dei diritti)
che securizzavano il mondo del lavoro. Ma si tratta di un’insicurezza sociale
nuova, a un tempo omologa e differente rispetto all’insicurezza sociale
secolare che ha segnato in profondità la condizione popolare”
(cfr. il
testo di Robert Castel)
Se nella configurazione delle nostre società, poste sotto l’egemonia del capitale finanziario, la precarietà e l’insicurezza sono incontestabilmente divenute un attributo permanente delle nostre vite, pochi però come Robert Castel hanno saputo analizzarne le ricadute regressive nel campo dei diritti sociali, e le ragioni per le quali le trasformazioni del lavoro risultano tanto più difficili da sopportare per le attuali generazioni.
Nel
breve testo intitolato Il ritorno dell’insicurezza sociale, scritto
nel 2011, Castel mostra appunto, nel modo più chiaro possibile, come il lavoro
non rappresenti più oggi il centro della protezione sociale, e quali
conseguenze discendano, in termini di esperienza personale e collettiva, da un
tale stato di cose, definendo la specifica articolazione contemporanea del
rapporto tra protezione e sentimento di insicurezza.
In
verità, per quell’attitudine denaturalizzante che gli è propria, già in un
importante scritto del 2003, L’insicurezza sociale, Castel aveva
dimostrato come il sentimento di insicurezza non possa essere banalmente inteso
come un dato immediato della coscienza, in quanto dipendente da configurazioni
storiche differenti, nella misura in cui «la sicurezza e l’insicurezza sono
rapporti relativi ai tipi di protezioni che una società assicura o non assicura
in maniera adeguata»1.
L’insicurezza, cioè, non consegue semplicemente all’assenza di protezioni
sociali – che, se così fosse, sarebbe impossibile spiegare la sua diffusione
nelle nostre società, protette come nessun’altra –, ma è l’effetto di un
«dislivello tra un’aspettativa socialmente costruita di protezioni e le
capacità effettive, da parte di una determinata società, di farle funzionare»2.
A
partire dal XIX secolo, infatti, le conquiste maturate dalle lotte sociali
hanno progressivamente costituito un sistema di protezione dai rischi originato
dal compromesso tra capitale e lavoro proprio del dopoguerra, che ha visto i
lavoratori associati piegarsi alle esigenze del capitalismo beneficiando in
cambio di un complesso di protezioni estese sulla base di condizioni stabili di
impiego. Le protezioni sociali sono state cioè il frutto di questo compromesso,
e per la prima volta nella storia dell’umanità hanno posto un argine a quella
che Castel definisce l’insicurezza sociale permanente, vale a dire
l’impossibilità storica delle classi popolari di securizzare l’avvenire per la
precarietà delle condizioni materiali della loro esistenza. Più esattamente,
nel riconoscimento dei diritti sociali risiede la risposta al fallimento della
promessa liberale di una società fondata su rapporti contrattuali di individui
liberi ed eguali, che produce in realtà l’esclusione di tutti coloro «le cui
condizioni di esistenza non possono assicurare l’indipendenza sociale
necessaria per entrare alla pari in un rapporto contrattuale»3.
Ma
nel corso degli anni Settanta, dopo il primo shock petrolifero e per effetto
delle esigenze dell’internazionalizzazione degli scambi, lo Stato non riesce
più a far fronte alla nuova direzione dell’economia, e mentre il compromesso di
cui sopra viene meno, il nuovo capitalismo tende ad aumentare la sua
redditività attraverso l’abbassamento dei salari e degli oneri sociali e la
deregulation del lavoro. Si colloca qui l’origine delle disparità infracategoriali
– le quali hanno generato una concorrenza all’interno delle stesse categorie di
lavoratori –, della mobilità discendente di gruppi dapprima assicurati, della
precarizzazione diffusa e della mobilità dei percorsi professionali con
conseguente dequalificazione di massa e condanna alla marginalità, e finanche
di quella gestione fluida e flessibile del lavoro che è divenuta oggi
patrimonio comune, nell’incapacità degli stati di rispondere alle nuove
congiunture economiche, e nell’assenza di potenze pubbliche internazionali in
grado di contenere la frenesia del profitto.
In Il
ritorno dell’insicurezza sociale, a distanza di tre anni dalla crisi del
2008, dopo aver analizzato i tratti dell’insicurezza sociale che ha
storicamente segnato la condizione popolare, Castel ne mostra il ritorno, ma
con i tratti inediti propri della precarietà generalizzata. Da circa quindici
anni, sottolinea il sociologo, «la categoria dei lavoratori poveri è riapparsa
nel nostro paesaggio sociale. Si può di nuovo lavorare e trovarsi comunque sul
filo del rasoio per provvedere ai propri bisogni e a quelli della propria
famiglia»4. E
benché il ‘vivere alla giornata’ non sia affatto un fenomeno nuovo nella
storia, il suo ritorno, con tutto il suo carico di insicurezza, è di gran lunga
peggiore della sua configurazione premoderna, proprio perché successivo a una
stagione di sicurezza e perciò ben più difficile da accettare. Difficile anche
perché i sistemi statali di protezione sono stati completamente interiorizzati
dagli individui, essendo divenute la protezione e la sua stessa rivendicazione
parte della loro ‘natura’, in modo opposto rispetto a quando si riteneva che
l’insicurezza sociale fosse un destino comune e dunque un carattere
ineluttabile della condizione popolare. Tesi, questa, che rende in qualche modo
conto di come la convinzione di essere lasciati ai margini, nell’incapacità di
controllare il proprio futuro, alimenta costantemente come reazione un diffuso
sentimento di abbandono e di risentimento da parte di quei gruppi sociali e di
quegli individui che, in passato assicurati, vengono a trovarsi ora
sovraesposti e indeboliti.
Sono
queste ragioni a rendere necessaria la creazione di protezioni all’altezza
della nuova congiuntura capitalistica, ed è convinzione di Castel, espressa in
questo saggio come già nel 2003, e sulla scorta dell’aspirazione di Karl
Polanyi ad addomesticare il mercato, che ciò potrà appunto discendere solo da
un nuovo compromesso tra capitale e lavoro.
Ciò,
si può aggiungere, è oggi ancor più necessario anche perché, dopo tanti anni in
cui gli individui hanno vissuto, di fatto e di diritto, in condizioni sociali
che hanno garantito loro una seppur minima indipendenza, il venir meno delle
protezioni e delle forme di sicurezza del lavoro, accompagnato dalla tendenza
allo smantellamento dei cosiddetti settori improduttivi, annovera tra i suoi
effetti il rinsaldarsi di vincoli di dipendenza sociali, e conseguentemente la
radicalizzazione dei rapporti di potere e il rafforzamento del ricatto cui è
sottoposto tanto il lavoratore quanto colui che aspiri a esserlo, e ancora chi
lo è di fatto ma non di diritto, finendo col compromettere il senso stesso
della cittadinanza sociale.
1 R. Castel, L’insicurezza
sociale. Che significa essere protetti? (2003), trad. it. di M.
Galzigna e M. Mapelli, Einaudi, Torino 2004, p. 5.
2Ibidem.
3 Ivi,
p. 39.
4 Id., Il ritorno
dell’insicurezza sociale, infra.