sabato 12 aprile 2014

La funzione sociale oltre la proprietà

di Maria Rosaria Marella*

“Molti sono i segnali – l’affermazione del discorso sui beni comuni, in primo luogo – dell’esigenza crescente di tornare a discutere in maniera esplicita della funzione sociale della proprietà. Ma riaprire quel dibattito oggi significa anche verificare la tenuta del progetto costituzionale complessivo nel mutato scenario sovranazionale e globale. E, su questo fronte, le opinioni si attestano su posizioni irriducibili le une alle altre: la costituzione italiana è considerata ora portatrice di valori e obiettivi ancora tutti da realizzare, ora, all’opposto, tramontata col declino del Welfare State”

La vicenda della trasformazione della funzione sociale nella con temporaneità si svolge, come è noto, in un contesto segnato dal profondo mutamento dei rapporti fra Stato e mercato, fra pubblico e privato. Un contesto in cui la sovranità statale deperisce, o comunque muta pelle, e la proprietà privata vive una nuova fase di ascesa. Così da una parte si contrappone allo Stato interventore lo Stato regolatore, lo Stato proponente e contraente. Dall’altra le politiche adottate dalla governance globale (World Bank, Wto, ecc.) promuovono l’espansione della proprietà, soprattutto della proprietà intellettuale, incoraggiata ad espandersi in dimensioni inedite, inglobando molto di ciò che era prima considerato public domain, o che non era affatto pensato come oggetto di diritti di esclusiva, come i geni umani. Ma anche l’appropriazione delle risorse naturali – dall’acqua, alla terra, ai saperi tradizionali legati al mondo vegetale (si veda il caso KAMUT o i brevetti ottenuti da Monsanto e altre multinazionali su antiche colture e erbe officinali) – acquista proporzioni nuove. Questo scenario si dimostra molto favorevole all’emergere del comune. L’esplosione della proprietà, da una parte, e il declino della sovranità degli Stati nazionali, dall’al tra, stimola il protagonismo di comunità piccole e grandi, localizzate e diffuse, nella lotta contro lo spossessamento del comune. Nel campo del materiale, dell’immateriale, nello spazio urbano. Il fenomeno è importante tanto che, a mio avviso, esso caratterizza lo statuto dei beni nella fase attuale, che risulta attraversato ora da una tensione fra nuove enclosures e forme organizzate di libero accesso e gestione collettiva delle risorse. A contendere il terreno alla proprietà privata, a contrastare il dispiegarsi delle facoltà del proprietario ora non è più lo Stato, il pubblico, ma la rivendicazione dell’accesso e dell’uso comune.
In termini giuridici, una nuova contrapposizione si profila: quella fra il diritto di escludere – del proprietario – e il diritto – degli altri, i non proprietari – a non essere esclusi. Quale il fondamento normativo di una tale pretesa? Oggi che «luoghi in tutto il mondo vengono ‘occupati’ per difendere diritti sociali», che in Italia decine di spazi culturali di proprietà pubblica o privata, lasciati in stato di abbandono, sono riattivati da artisti e lavoratori dell’immateriale con produzioni culturali restituite al quartiere, alla città, a più ampie collettività, che proprietà dismesse vengono occupate con la volontà di produrre ‘Welfare dal basso’ e di soddisfare diritti fondamentali come il diritto al l’abitare, il principio della funzione sociale può soccorrere conferendo legittimità alle violazioni ‘socialmente virtuose’ del diritto di proprietà? In difesa dei beni comuni si sostiene effettivamente questo.

Ora, il dibattito che ha preso vita sul filo della (o di una eventuale) saldatura fra funzione sociale e beni comuni ci dice che nessuna risposta sbrigativa è possibile, poiché ogni presa di posizione al riguardo sottintende una specifica opinione sulla vitalità della funzione sociale, sull’attualità dell’intero progetto costituzionale e persino sulla funzione che si riconosce al diritto come strumento di ingegneria sociale. Cosicché la questione diventa lo snodo intorno a cui si confrontano concezioni di fondo che partendo dalla riflessione sui beni comuni trovano il punto di caduta nel rapporto fra diritto e politica. E prendere parola su temi di questa portata non è certamente compito che possa affidarsi alle battute conclusive di un breve saggio. Qui si tratta, invece, di trarre qualche conseguenza dall’approccio genealogico al tema della funzione sociale che ho seguito nelle pagine che precedono.
Provo allora a riassumere i termini della discussione. Nella costituzione la proprietà è pubblica o privata. La proprietà privata, conformata dalla funzione sociale, è riconosciuta e garantita. I beni comuni non sono contemplati né si fa menzione delle proprietà collettive di cui in sede costituente si discusse per poi decidere di assorbirle nel pubblico (o nel privato). Tanto rende il progetto costituzionale e la dimensione del comune, intesa come dimensione collettiva che scardina in qualche modo la rigidità della dicotomia pubblico/privato, non immediatamente armonizzabili.
Si profila allora – diciamo, in prima battuta – l’eventualità di un uso meramente tattico della funzione sociale, eventualità certamente benvenuta ove dovesse servire a salvare questa o quella occupazione a rischio di sgombero. Al riguardo indicazioni preziose si traggono ancora una volta da Note critiche, laddove si dice che «l’inattività del proprietario, quando siano posti a suo carico obblighi e oneri, determina una sopravveniente carenza di legittimazione alla titolarità o all’esercizio del diritto di proprietà». E in effetti, poiché nella maggior parte dei casi i luoghi occupati e rivendicati come comuni sono proprietà ‘in stato di abbandono’, la legittimazione all’esercizio del diritto può fondatamente essere messa in questione. Del resto la stessa ratio dell’art.838 c.c. che giudica espropriabili beni produttivi abbandonati dal proprietario, ovvero fondi urbani il cui deperimento può nuocere al decoro cittadino, all’arte, alla sanità pubblica, milita in questo senso, sebbene richieda ai fini operazionali un provvedimento di esproprio ad hoc.
Per questa via, però, tutto quanto possiamo ottenere è un comune di risulta, rilevante e meritevole di tutela giuridica solo quando la proprietà sia illegittimamente esercitata. Serve invece qualcosa di più. Il tentativo più fortunato di dare al dettato costituzionale valenza strategica superando l’evidente distanza fra la dimensione del comune e l’ancoraggio della costituzione alla dicotomia pubblico/privato sta in una rilettura dell’art. 42, comma 2 Cost. secondo la quale la proprietà dei beni comuni, pubblica o privata che sia, è intrinsecamente limitata dalla facoltà di accesso e uso riconosciute a chiunque abbia un interesse conforme alla natura del bene. È questa un’interpretazione della funzione sociale più promettente, in quanto attacca direttamente la logica proprietaria, distinguendo accesso, uso e proprietà e contrapponendo i primi alla seconda. Si afferma infatti che accesso e proprietà nella loro rilevanza costituzionale sono categorie autonome, potenzialmente o attualmente in conflitto. L’accesso deve essere riconosciuto indipendentemente dalla titolarità ove ciò serva a garantire l’interesse all’uso del bene oltre le forme dell’appartenenza esclusiva. E ove il bene sia al centro di una costellazione di interessi, questi ultimi devono trovare voce attraverso l’ideazione di modelli partecipativi di gestione.
Siamo con ciò di fronte a una lettura avanzata della norma costituzionale, distante, almeno in apparenza, da un’impostazione che originariamente leggeva la funzione sociale, in piena coerenza con il sistema capitalistico, come quel principio che consente ad una società moderna che riconosca la proprietà dei beni di trarre da essa vantaggi adeguati. Tuttavia, gli sviluppi che hanno interessato di recente la funzione sociale confermano l’indeterminatezza ovvero la flessibilità delle forme giuridiche, la loro intrinseca capacità di dar voce a progetti anche distanti fra loro, cosicché non ci sono letture storicamente adeguate e letture peregrine perché eccentriche rispetto ad un’unica coerente linea evolutiva, e sarebbe pertanto arbitrario liquidare la funzione sociale come un dispositivo appartenente ad una fase ormai superata della cultura giuridica, da relegare oggi ad un uso meramente tattico. Come sono possibili modalità di conformazione della proprietà del tutto funzionali alle esigenze delle politiche neoliberali – e le abbiamo viste – altrettanto possibili sono le declinazioni ‘antagoniste’ della funzione sociale.
Resta aperta a mio avviso una questione. Viene da chiedersi se l’itinerario che si percorre per giungere ad una lettura tanto avanzata della funzione sociale si compia ancora interamente dentro il dettato costituzionale. Una volta constatato che l’appartenenza esclusiva non è in grado di rendere conto della complessità delle relazioni fra persone e cose, la funzione sociale diventa il grimaldello per neutralizzare pressoché integralmente ciò che costituisce il cuore del diritto di proprietà, lo jus excludendi alios. In questo caso non siamo forse oltre la funzione sociale, proprio perché, in realtà, siamo giunti oltre la (forma storica della) proprietà? Non che qui si affermi una essenza ‘morale’ imprescindibile della proprietà (l’egoismo proprietario?) irriducibile ad assetti proprietari ‘altruisti’, che consentano l’accesso alle risorse a chi sia portatore di interessi di una data rilevanza. Ci si chiede però fino a che punto una forma di appartenenza, storicamente data, che si struttura intorno al diritto di escludere gli altri dall’accesso alla cosa possa resistere ad una torsione di tale intensità. Se e quando, insomma, la relatività storica della forma giuridica segni essa stessa il limite alle sue possibili rimodulazioni, un limite oltre il quale la relazione fra le persone e le cose non si affida affatto alle forme dell’appartenenza e diventa uso che contende al diritto il suo statuto di mero fatto.


*estratto dal saggio il cui testo integrale con note ed apparato bibliografico è consultabile sulle pagine di Euronomade