di
Maria Rosaria Marella*
“Molti sono i segnali –
l’affermazione del discorso sui beni comuni, in primo luogo – dell’esigenza
crescente di tornare a discutere in maniera esplicita della funzione sociale
della proprietà. Ma riaprire quel dibattito oggi significa anche verificare la
tenuta del progetto costituzionale complessivo nel mutato scenario
sovranazionale e globale. E, su questo fronte, le opinioni si attestano su
posizioni irriducibili le une alle altre: la costituzione italiana è
considerata ora portatrice di valori e obiettivi ancora tutti da realizzare,
ora, all’opposto, tramontata col declino del Welfare State”
La
vicenda della trasformazione della funzione sociale nella con temporaneità si
svolge, come è noto, in un contesto segnato dal profondo mutamento dei rapporti
fra Stato e mercato, fra pubblico e privato. Un contesto in cui la sovranità
statale deperisce, o comunque muta pelle, e la proprietà privata vive una nuova
fase di ascesa. Così da una parte si contrappone allo Stato interventore lo
Stato regolatore, lo Stato proponente e contraente. Dall’altra le politiche
adottate dalla governance globale (World Bank, Wto, ecc.) promuovono
l’espansione della proprietà, soprattutto della proprietà intellettuale,
incoraggiata ad espandersi in dimensioni inedite, inglobando molto di ciò che
era prima considerato public domain, o che non era affatto pensato come oggetto
di diritti di esclusiva, come i geni umani. Ma anche l’appropriazione delle
risorse naturali – dall’acqua, alla terra, ai saperi tradizionali legati al
mondo vegetale (si veda il caso KAMUT o i brevetti ottenuti da Monsanto e altre
multinazionali su antiche colture e erbe officinali) – acquista proporzioni
nuove. Questo scenario si dimostra molto favorevole all’emergere del comune.
L’esplosione della proprietà, da una parte, e il declino della sovranità degli
Stati nazionali, dall’al tra, stimola il protagonismo di comunità piccole e
grandi, localizzate e diffuse, nella lotta contro lo spossessamento del comune.
Nel campo del materiale, dell’immateriale, nello spazio urbano. Il fenomeno è
importante tanto che, a mio avviso, esso caratterizza lo statuto dei beni nella
fase attuale, che risulta attraversato ora da una tensione fra nuove enclosures
e forme organizzate di libero accesso e gestione collettiva delle risorse. A
contendere il terreno alla proprietà privata, a contrastare il dispiegarsi
delle facoltà del proprietario ora non è più lo Stato, il pubblico, ma la
rivendicazione dell’accesso e dell’uso comune.
In
termini giuridici, una nuova contrapposizione si profila: quella fra il diritto
di escludere – del proprietario – e il diritto – degli altri, i non proprietari
– a non essere esclusi. Quale il fondamento normativo di una tale pretesa? Oggi
che «luoghi in tutto il mondo vengono ‘occupati’ per difendere diritti
sociali», che in Italia decine di spazi culturali di proprietà pubblica o
privata, lasciati in stato di abbandono, sono riattivati da artisti e
lavoratori dell’immateriale con produzioni culturali restituite al quartiere,
alla città, a più ampie collettività, che proprietà dismesse vengono occupate
con la volontà di produrre ‘Welfare dal basso’ e di soddisfare diritti
fondamentali come il diritto al l’abitare, il principio della funzione sociale
può soccorrere conferendo legittimità alle violazioni ‘socialmente virtuose’
del diritto di proprietà? In difesa dei beni comuni si sostiene effettivamente
questo.
Ora,
il dibattito che ha preso vita sul filo della (o di una eventuale) saldatura
fra funzione sociale e beni comuni ci dice che nessuna risposta sbrigativa è
possibile, poiché ogni presa di posizione al riguardo sottintende una specifica
opinione sulla vitalità della funzione sociale, sull’attualità dell’intero
progetto costituzionale e persino sulla funzione che si riconosce al diritto
come strumento di ingegneria sociale. Cosicché la questione diventa lo snodo
intorno a cui si confrontano concezioni di fondo che partendo dalla riflessione
sui beni comuni trovano il punto di caduta nel rapporto fra diritto e
politica. E prendere parola su temi di questa portata non è certamente
compito che possa affidarsi alle battute conclusive di un breve saggio. Qui si
tratta, invece, di trarre qualche conseguenza dall’approccio genealogico al
tema della funzione sociale che ho seguito nelle pagine che precedono.
Provo
allora a riassumere i termini della discussione. Nella costituzione la
proprietà è pubblica o privata. La proprietà privata, conformata dalla funzione
sociale, è riconosciuta e garantita. I beni comuni non sono contemplati né si
fa menzione delle proprietà collettive di cui in sede costituente si discusse
per poi decidere di assorbirle nel pubblico (o nel privato). Tanto rende il
progetto costituzionale e la dimensione del comune, intesa come dimensione
collettiva che scardina in qualche modo la rigidità della dicotomia
pubblico/privato, non immediatamente armonizzabili.
Si
profila allora – diciamo, in prima battuta – l’eventualità di un uso meramente
tattico della funzione sociale, eventualità certamente benvenuta ove dovesse
servire a salvare questa o quella occupazione a rischio di sgombero. Al
riguardo indicazioni preziose si traggono ancora una volta da Note critiche,
laddove si dice che «l’inattività del proprietario, quando siano posti a suo
carico obblighi e oneri, determina una sopravveniente carenza di legittimazione
alla titolarità o all’esercizio del diritto di proprietà». E in effetti, poiché
nella maggior parte dei casi i luoghi occupati e rivendicati come comuni sono
proprietà ‘in stato di abbandono’, la legittimazione all’esercizio del diritto
può fondatamente essere messa in questione. Del resto la stessa ratio
dell’art.838 c.c. che giudica espropriabili beni produttivi abbandonati dal
proprietario, ovvero fondi urbani il cui deperimento può nuocere al decoro
cittadino, all’arte, alla sanità pubblica, milita in questo senso, sebbene
richieda ai fini operazionali un provvedimento di esproprio ad hoc.
Per
questa via, però, tutto quanto possiamo ottenere è un comune di risulta,
rilevante e meritevole di tutela giuridica solo quando la proprietà sia
illegittimamente esercitata. Serve invece qualcosa di più. Il tentativo più
fortunato di dare al dettato costituzionale valenza strategica superando
l’evidente distanza fra la dimensione del comune e l’ancoraggio della
costituzione alla dicotomia pubblico/privato sta in una rilettura dell’art. 42,
comma 2 Cost. secondo la quale la proprietà dei beni comuni, pubblica o privata
che sia, è intrinsecamente limitata dalla facoltà di accesso e uso riconosciute
a chiunque abbia un interesse conforme alla natura del bene. È questa
un’interpretazione della funzione sociale più promettente, in quanto attacca
direttamente la logica proprietaria, distinguendo accesso, uso e proprietà e
contrapponendo i primi alla seconda. Si afferma infatti che accesso e proprietà
nella loro rilevanza costituzionale sono categorie autonome, potenzialmente o
attualmente in conflitto. L’accesso deve essere riconosciuto indipendentemente
dalla titolarità ove ciò serva a garantire l’interesse all’uso del bene oltre
le forme dell’appartenenza esclusiva. E ove il bene sia al centro di una costellazione
di interessi, questi ultimi devono trovare voce attraverso l’ideazione di
modelli partecipativi di gestione.
Siamo
con ciò di fronte a una lettura avanzata della norma costituzionale, distante,
almeno in apparenza, da un’impostazione che originariamente leggeva la funzione
sociale, in piena coerenza con il sistema capitalistico, come quel principio
che consente ad una società moderna che riconosca la proprietà dei beni di
trarre da essa vantaggi adeguati. Tuttavia, gli sviluppi che hanno interessato
di recente la funzione sociale confermano l’indeterminatezza ovvero la
flessibilità delle forme giuridiche, la loro intrinseca capacità di dar voce a
progetti anche distanti fra loro, cosicché non ci sono letture storicamente
adeguate e letture peregrine perché eccentriche rispetto ad un’unica coerente
linea evolutiva, e sarebbe pertanto arbitrario liquidare la funzione sociale
come un dispositivo appartenente ad una fase ormai superata della cultura
giuridica, da relegare oggi ad un uso meramente tattico. Come sono possibili
modalità di conformazione della proprietà del tutto funzionali alle esigenze
delle politiche neoliberali – e le abbiamo viste – altrettanto possibili sono
le declinazioni ‘antagoniste’ della funzione sociale.
Resta
aperta a mio avviso una questione. Viene da chiedersi se l’itinerario che si
percorre per giungere ad una lettura tanto avanzata della funzione sociale si
compia ancora interamente dentro il dettato costituzionale. Una volta
constatato che l’appartenenza esclusiva non è in grado di rendere conto della
complessità delle relazioni fra persone e cose, la funzione sociale diventa il
grimaldello per neutralizzare pressoché integralmente ciò che costituisce il
cuore del diritto di proprietà, lo jus excludendi alios. In questo caso non
siamo forse oltre la funzione sociale, proprio perché, in realtà, siamo giunti
oltre la (forma storica della) proprietà? Non che qui si affermi una essenza
‘morale’ imprescindibile della proprietà (l’egoismo proprietario?) irriducibile
ad assetti proprietari ‘altruisti’, che consentano l’accesso alle risorse a chi
sia portatore di interessi di una data rilevanza. Ci si chiede però fino a che
punto una forma di appartenenza, storicamente data, che si struttura intorno al
diritto di escludere gli altri dall’accesso alla cosa possa resistere ad una
torsione di tale intensità. Se e quando, insomma, la relatività storica della
forma giuridica segni essa stessa il limite alle sue possibili rimodulazioni,
un limite oltre il quale la relazione fra le persone e le cose non si affida
affatto alle forme dell’appartenenza e diventa uso che contende al diritto il
suo statuto di mero fatto.
*estratto
dal saggio il cui testo integrale con note ed apparato bibliografico è consultabile
sulle pagine di Euronomade