di
Davide Gangale
«Io
non ho deciso di andare all'estero, come fanno oggi tanti giovani della tua
età. Io sono scappato all'estero perché avevo un mandato di cattura. Ero un
militante di Autonomia Operaia, che è stata una grande esperienza politica,
anche se minoritoria, del processo di trasmissione dalla vecchia composizione
di classe alla nuova. Non ci pensavo proprio, io, al futuro. Una volta arrivato
in Francia mi sono rimesso a studiare. Ma sono precario ancora adesso»
Nel tuo ultimo libro, scrivi: per Duchamp «il
rifiuto del lavoro artistico significa rifiuto di produrre per il mercato». Ma
al di fuori del mercato, esiste un metro per dare un riconoscimento materiale
al lavoro immateriale?
Quella di Duchamp è
senza dubbio un'esperienza molto particolare. Il mercato dell'arte come lo
conosciamo oggi non si era ancora affermato, diciamo così. E lui aveva scelto
di starne ai margini. A portarlo nel mercato furono le avanguardie degli anni
'60, e fu Schwartz, un gallerista milanese, a compiere questa operazione.
L'opera di Duchamp fino a quel momento non era passata per il mercato, era
un'opera nascosta. Era poco conosciuto negli Stati Uniti, sconosciuto in
Europa, ed è entrato nel mercato dell'arte solo in un secondo momento. Il ready made, per esempio, prima non
era mai stato esposto. Erano cose sue, private. Solo una volta, era stato
esposto il... pissoir,
come si dice in italiano?
Pisciatoio.
Pisciatoio.
Ecco. Quella di Duchamp
è una situazione particolare. Oggi appare improponibile. Ma del resto lui
stesso dice che il problema è essere al limite: tra lo stare dentro l'arte,
dentro il mercato dell'arte, e lo starne fuori. In un'intervista lui stesso
riconosce che se avesse abbandonato completamente l'arte, come hanno fatto
molti artisti negli anni '60 e '70, che hanno lasciato il mondo dell'arte
definitivamente, con una critica severa... questi sono stati completamente
dimenticati. Duchamp resta al limite, in maniera qualche volta anche ambigua.
Nello stesso tempo, però, il rifiuto del lavoro che applica, un rifiuto sia
verso il lavoro in generale, sia verso il lavoro artistico, mi sembra molto
interessante. Certo, ci sono delle condizioni materiali. Duchamp aveva una
piccola rendita, era aiutato da alcuni ricchi borghesi, e gli ultimi anni della
sua vita ha avuto un po' di denaro in tasca. Però prima ha vissuto... non gli
interessava molto questo aspetto. Mi sembrava che questa sua caratteristica
fosse interessante rispetto a quello che sta succedendo oggi, nel mondo del
lavoro. Anche se, ripeto: il rifiuto del lavoro, una strategia del genere,
oggi, in quanto tale, è difficilmente riproponibile.
Mi chiedo: rifiutare il lavoro in un momento in cui la disoccupazione a livello europeo è al 12%, in Italia al 13% e quella giovanile è arrivata al 42%, non rischia di suonare quantomeno fuori luogo?
Mi chiedo: rifiutare il lavoro in un momento in cui la disoccupazione a livello europeo è al 12%, in Italia al 13% e quella giovanile è arrivata al 42%, non rischia di suonare quantomeno fuori luogo?
Sì, ma bisogna
distinguere tra lavoro e impiego. Non sono la stessa cosa. Dal mio punto di
vista, la questione è molto semplice: si lavora spesso – come tu stai facendo
in questo preciso momento – ma si viene pagati molto raramente! Il problema non
è lavorare, ma farsi pagare. Si lavora, anche su cose che possono essere più o
meno interessanti, però... essere impiegati, cioè far corrispondere a questo
lavoro un salario, o un reddito, beh, è molto più difficile. Quello che manca
non è il lavoro, quello che manca è l'impiego. Lavoro ce n'è troppo. Si fa
troppo lavoro gratuito, come quello che stai facendo tu adesso [ride]. Il
problema è che ci fanno lavorare sempre di più, ma sempre più gratuitamente. È
la logica del sistema, ed è una cosa molto strana, perché da un certo punto di
vista sei costretto a farlo. È un lavoro che ti interessa, che ti piace... e
allora in un certo senso trovi una giustificazione al fatto che fai qualcosa
che ti piace. Però, di per sé, è un tipo di sfruttamento come un altro, forse
anche più di un altro, perché non c'è nessuno che te lo impone veramente. C'è
un dispositivo che te lo impone, se vuoi, quello dell'economia neoliberale.
Però, è come se fossi tu a scegliere questa situazione. È un fatto molto
complicato, perché la messa in discussione di questo tipo di relazione implica
la messa in discussione di te stesso. L'esperienza di Duchamp è interessante,
perché lui non aveva un padrone. Come te, anche tu non hai un padrone. Ma sei
preso da una serie di dispositivi, che ti obbligano, da un certo punto di
vista, anche se non ne sei perfettamente cosciente...
Quindi, secondo te, non essendo pagato per fare
questa intervista, io avrei dovuto rifiutare di farla. Stai dicendo questo?
[ride] Ma no, non so...
probabilmente no. Il problema è che una volta questi erano i lavori che si
facevano per uno, due, massimo tre anni. Invece adesso è diventata la
prospettiva di una vita intera. Cioè, tu devi fare il precario, lavorare un
casino, fare cinque interviste e te ne pagano una sola.
Una condizione che riguarda in particolare il lavoro culturale, o il lavoro in generale?
Una condizione che riguarda in particolare il lavoro culturale, o il lavoro in generale?
No, riguarda il lavoro
in generale. Ma in particolare il lavoro culturale. Che dovrebbe rendersi conto
di essere giunto a un livello di proletarizzazione e sfruttamento abbastanza
rilevante. Le condizioni, i sistemi di concorrenza... Questi meccanismi stanno
andando avanti da anni, però: prima o poi i lavoratori culturali dovranno dire
"no" a questo tipo di situazione. Prima o poi, delle forme di rifiuto
si dovranno esprimere. E poi c'è un altro problema: dagli anni '70 ad oggi, la
ricchezza prodotta dai paesi occidentali in cui viviamo è raddoppiata. Dove
cazzo è finita?
La crescita, parola magica del nostro tempo, è stata una crescita delle diseguaglianze: è questo che intendi?
La crescita si dà come
crescita diseguale. Per cui, se ci sarà una nuova crescita, non risolverà la
cause della crisi. Le riprodurrà di nuovo. Non dobbiamo dimenticare che la
crisi che stiamo vivendo è diseguale per definizione: la redistribuzione della
ricchezza, durante la crisi, è avvenuta e sta avvenendo a tutto vantaggio della
rendita.
Crisi e diseguaglianze sembrano aver trovato una giustificazione in quella che, citando il titolo di un altro dei tuoi libri, si potrebbe definire l'ideologia dell'«uomo indebitato». In cosa consiste?
Crisi e diseguaglianze sembrano aver trovato una giustificazione in quella che, citando il titolo di un altro dei tuoi libri, si potrebbe definire l'ideologia dell'«uomo indebitato». In cosa consiste?
Diciamo così:
l'economia neoliberale, da quando si è imposta alla fine degli anni '70, è
un'economia del credito. È tutta organizzata sul mercato finanziario. Il
credito, se lo leggi dall'altra parte, è debito. Ma porta in sé stesso una
promessa di futuro. Perché chi accede al credito lo fa per poter realizzare dei
progetti, per comprare qualcosa, per mettere in piedi un'attività, c'è
un'apertura verso il futuro. Questo sistema è andato incontro a un
rovesciamento. A partire dal 2007/2008, il credito si è rovesciato in debito.
Perché il credito funziona solo se il sistema è continuamente in espansione. Se
la riproduzione allargata prolifera, tutto bene. Se si blocca, il credito si
rovescia in debito. Improvvisamente l'orizzonte si è chiuso. E la finanza non è
stata più in grado di mantenere quella promessa.
Che cos'è per te la finanza?
Che cos'è per te la finanza?
In fondo, la finanza e
il credito sono un tentativo di controllare il futuro. L'economia finanziaria è
un'economia che è interamente diretta verso il futuro, perché è fatta di
investimenti che vanno realizzati nel futuro. Il futuro, però, per definizione
é indeterminato e imprevedibile. Quindi, il problema diventa come neutralizzare
questa imprevedibilità. Da un certo punto di vista, la finanza è un tentativo
di bloccare il tempo, di togliere al tempo l'imprevedibilità. Di bloccarlo
anche come creatività. Bisogna cercare di anticipare i comportamenti futuri, e
paradossalmente l'effetto è quella strana sensazione di vivere in una società
senza tempo, senza autentiche possibilità, senza futuro. E' una contraddizione:
il credito dovrebbe aprire delle possibilità. Allo stesso tempo, però, per
assicurare il ritorno dell'investimento occorre neutralizzare il rischio.
Scaricandolo su una molteplicità di attori, ma senza eliminarlo. La crisi dei
mutui subprime lo dimostra. La distribuzione del rischio è diventata
un'infezione, ed è stata scaricata sulle popolazioni. Cioè su chi non aveva la
responsabilità di aver assunto quel rischio. E' un meccanismo delirante, però
il capitalismo è così. Il capitalismo, da un certo punto di vista, è un
delirio. Non è una razionalità.
L'uomo indebitato come fa a uscire da questo delirio?
L'uomo indebitato come fa a uscire da questo delirio?
L'ideologia dell'uomo
indebitato è un tentativo di colpevolizzare le popolazioni. Che secondo me,
però, non ha funzionato. L'ideologia dell'uomo indebitato dice: lavorate troppo
poco, andate in pensione troppo presto, vi curate troppo bene... Ma non è
un'ideologia convincente, dal mio punto di vista. L'unica possibile via
d'uscita è politica, ma per il momento non si vede quale possa essere. Tanto
per cominciare, si potrebbe dire che il problema non è il costo del lavoro, ma
il costo della rendita. Ma nessuno ha il coraggio di dirlo. Il debito è un
meccanismo per catturare la ricchezza sociale e trasferirla alla rendita. Che
poi il debito sia servito anche a finanziare i servizi sociali, la sanità, le
pensioni... questo si sarebbe potuto fare comunque, perché dagli anni '70 ad
oggi la ricchezza è raddoppiata. Che fine ha fatto questa ricchezza?
Neutralizzare la rendita, realizzare «l'eutanasia del rentier» di cui scriveva Keynes, sono soluzioni praticabili oggi?
Neutralizzare la rendita, realizzare «l'eutanasia del rentier» di cui scriveva Keynes, sono soluzioni praticabili oggi?
Non si può più fare,
perché il capitalismo attuale è integralmente finanziarizzato. Mentre nel
capitalismo degli anni di Keynes c'era ancora una non identificazione tra
capitale industriale e capitale finanziario, oggi non è più così. Neutralizzare
la finanza oggi significa neutralizzare il capitalismo. E quindi, da un certo
punto di vista, il capitalismo non ha alternative all'austerity in Europa, e
alle continue iniezioni di liquidità negli Stati Uniti e in Giappone. Ma
continuare così finirà per creare altre bolle.
E il reddito di cittadinanza?
E il reddito di cittadinanza?
Io sono d'accordo col
reddito di cittadinanza, ma per ottenerlo ci vogliono dei rapporti di forza che
non ci sono. Occorre ricreare dei rapporti di forza, delle forme di resistenza
e di auto-organizzazione che ricordino le classi. Non sarà più la classe
operaia, ma se non si ricostruisce questo tipo di rapporto di forza, non vedo
come sia possibile ottenere il reddito di cittadinanza. Se tutti continuano a
lavorare gratis, perché qualcuno a un certo punto ti dovrebbe pagare? Se non si
trovano delle forme di organizzazione, come hanno fatto i lavoratori fino alla
generazione di mio padre, che non erano "cognitivi" però erano un po'
più intelligenti [ride]. La generazione di mio padre ha guadagnato dei diritti,
ha combattuto per averli. E noi li stiamo perdendo uno ad uno, pur essendo
"cognitivi", formati, eccetera eccetera. Non è la
"cognizione" che determina la politica, non so come dire. Come si fa
ad organizzarsi con gli altri? Questa è la difficoltà da superare, per imporre
dei rapporti di forza e conquistare il diritto di discutere, anche di reddito
di cittadinanza. L'uscita dalla crisi ci sarà, dal mio punto di vista, solo
quando ci sarà la possibilità di ricomporre e organizzare un conflitto reale.
La situazione al momento è ancora troppo asimmetrica, il rapporto di forza è
ancora troppo sfavorevole. Nonostante la crisi e anzi, anche dentro la crisi.
Come organizzare la molteplicità dei soggetti sfruttati, dei precari, dei
più-o-meno-precari, più-o-meno-garantiti, in una lotta dualistica contro il
capitale? Questo è il problema.
Maurizio
Lazzarato, filosofo e sociologo indipendente, vive in Francia dal 1982 e in
Italia ci viene raramente. Domenica 13 aprile era a Milano, a Macao, per
partecipare al seminario Fare Pubblici.
Nell'intervallo tra il panel della mattina e quello pomeridiano, tra una
sigaretta e l'altra, si lascia intervistare per Doppiozero.
A partire dal suo ultimo libro, Marcel Duchamp e il rifiuto del lavoro (Edizioni
Temporale)