di
David Harvey
“Ciò di cui sono in cerca è una
migliore comprensione
delle contraddizioni del capitale,
non del capitalismo.
Intendo conoscere come funziona il motore
economico
del capitalismo, e come mai talvolta
esso balbetta,
va in stallo o appare essere
sull'orlo del collasso.
Voglio inoltre mostrare come mai questo motore
economico deve essere sostituito, e
con cosa.”
in attesa
della pubblicazione in italiano si propone la lettura del prologo tradotto da INFOAUT (qui rinvenibile in lingua originale) del volume di Harvey . Una sorta di manifesto politico dove vengono definite –come
rilevano i traduttori- “tre tipologie di contraddizioni: fondative (tra
capitale e lavoro, tra appropriazione privata e common wealth, tra proprietà
privata e Stato, tra valore d'uso e valore di scambio ecc...); mobili (rispetto
alla divisione del lavoro, tra monopolio e competizione ecc...) e pericolose
(la capitalizzazione infinita della crescita, la relazione tra Capitale e
natura, tra alienazione e rivolta dell'umano). Attraverso questa disamina
Harvey si propone di svelare nuove prospettive di critica ed organizzazione
anticapitalista, ponendosi in una dialettica critica rispetto ad altri approcci
attualmente in voga”
L'attuale crisi del capitalismo
Le
crisi sono necessarie per la riproduzione del capitalismo. È nel corso di esse
che le instabilità vengono affrontate, riorganizzate e riarticolate per creare
una nuova versione di ciò che riguardi il capitalismo. Molte cose vengono
abbattute e distrutte per fare posto al nuovo. Quelli che erano paesaggi
produttivi vengono trasformati in desolati territori industriali, le vecchie
fabbriche vengono abbattute o convertite per nuovi usi, i quartieri della
classe operaia vengono gentrificati. In altri contesti, piccole aziende
agricole e proprietà contadine vengono sostituite da forme di agricoltura
industrializzata su larga scala o da nuove lucenti fabbriche. Zone industriali,
Ricerca & Sviluppo, e centri di stoccaggio e distribuzione all'ingrosso si
diffondono per il territorio, nel mezzo della distesa di alloggi nei suburb,
collegati assieme dagli incroci delle autostrade. Le città centrali gareggiano
a chi abbia i più alti e affascinanti grattacieli direzionali ed edifici
culturali simbolo, una profusione di centri commerciali giganti prolifera nelle
città e nei suburb, alcuni persino raddoppiano come aeroporti attraverso i quali
orde di turisti e dirigenti aziendali attraversano costantemente un mondo
divenuto cosmopolitico a tavolino. I campi da golf e le gated community di cui
gli USA erano stati pionieri possono ora essere visti in Cina, Cile e India, in
contrasto con i diffusi fenomeni di insediamenti occupati ed auto-costruiti
designati ufficialmente come slum, favelas o quartieri poveri.
Ma
ciò che è più impressionante delle crisi non è la completa riconfigurazione del
paesaggio fisico, quanto i cambiamenti radicali nelle modalità di pensiero e
comprensione, delle istituzioni e delle ideologie dominanti, delle lealtà e dei
processi politici, delle soggettività politiche, delle tecnologie e delle forme
organizzative, delle relazioni sociali, delle abitudini e dei gusti culturali
che informano la vita quotidiana. Le crisi scuotono alle fondamenta le nostre
concezioni mentali del mondo e del nostro posto in esso. E noi, come irrequieti
partecipanti ed abitanti di questo nuovo mondo emergente, dobbiamo adattarci,
attraverso la coercizione od il consenso, a questo nuovo stato di cose, anche
se, grazie a quello che facciamo e a come pensiamo e ci comportiamo,
aggiungiamo la nostra opinione alle ingarbugliate qualità di questo
mondo.
Nel
mezzo di una crisi è difficile vedere dove possa essere l'uscita. Le crisi non
sono eventi singoli. Pur avendo i loro evidenti inneschi, gli spostamenti
tettonici che rappresentano impiegano molti anni per venire alla luce. La
prolungata crisi iniziata col tracollo del mercato azionario del 1929 non fu
risolta sino agli anni Cinquanta, dopo che il mondo era passato attraverso la
Depressione degli anni Trenta e la guerra globale dei Quaranta. Parimenti, la
crisi la cui esistenza fu segnalata dalla turbolenza nei mercati valutari
internazionali nei tardi anni Sessanta e dagli eventi del 1968 per le strade di
molte città (da Parigi e Chicago fino a Città del Messico e Bangkok) non fu
risolta sino a metà anni Ottanta, dopo essere passati nei primi anni Settanta
attraverso il collasso del sistema monetario internazionale inaugurato a
Bretton Woods nel 1944, una turbolenta decade di lotte operaie negli anni
Settanta e l'ascesa ed il consolidamento delle politiche di neoliberalizzazione
sotto Reagan, Thatcher, Kohl, Pinochet e, per finire, Deng in Cina.
Col
senno di poi non è difficile riconoscere abbondanti segnali dei problemi a
venire, ben prima che una crisi esploda in maniera lampante. Le impetuose
diseguaglianze di ricchezze monetarie e di reddito degli anni Venti e la bolla
del mercato immobiliare che esplose negli Usa nel 1928 come presagi del
collasso del 1929, ad esempio. Senza dubbio la modalità di uscita da una crisi
contiene in sé i semi della crisi successiva. La finanziarizzazione globale,
oberata dal debito e crescentemente deregolamentata, iniziata negli anni
Ottanta come modalità per risolvere i conflitti con il lavoro attraverso la
facilitazione della mobilità e della dispersione geografica, ha prodotto il suo
epilogo nel crollo della banca di investimento di Lehman Brothers il 15 settembre
2008.
In
questo momento, sono passati più di cinque anni da quell'evento, elemento
scatenante dei collassi finanziari a cascata che seguirono. Se il passato è in
qualche modo una guida, sarebbe grossolano aspettarsi a questo punto una
qualsiasi chiara indicazione di come possa apparire un capitalismo rinvigorito
– sempre che ciò sia possibile. Tuttavia ci dovrebbero ormai essere diagnosi
concorrenti su ciò che non funziona, e una proliferazione di proposte per
aggiustare le cose. Ciò che invece sorprende è la scarsità di nuovi pensieri e
nuove politiche. Il mondo è per lo più polarizzato tra una continuazione, se
non un approfondimento (come in Europa e negli Stati Uniti), dei rimedi
neoliberali, monetaristi e sul lato dell'offerta che enfatizzano l'austerità
come medicina appropriata per curare i propri mali; oppure il revival di alcune
versioni, solitamente annacquate, di un'espansione keynesiana sul lato della
domanda e finanziate dal debito (come in Cina) che ignorano l'accento che
Keynes pose sulla redistribuzione dei redditi verso le classi inferiori quale
uno dei suoi elementi chiave. A prescindere dalla politica seguita, il
risultato è sempre quello di favorire il club dei miliardari che ora forma una
plutocrazia dal potere crescente sia all'interno dei singoli paesi (come Rupert
Murdoch) che su scala globale. I ricchi stanno diventando sempre più ricchi
dappertutto. I 100 maggiori miliardari del mondo (da Cina, Russia, India,
Messico e Indonesia come dai tradizionali centri della ricchezza in Nord America
ed Europa) hanno aggiunto ai loro forzieri 240 miliardi di dollari solo nel
2012 (abbastanza, secondo Oxfam, da far cessare la povertà globale in una sola
notte). Al contrario il benessere delle masse nel migliore dei casi stagna, o
più verosimilmente subisce una degradazione accelerata se non catastrofica
(come in Grecia e Spagna).
La
grossa differenza istituzionale a questo giro sembra essere il ruolo delle
banche centrali, con la Federal Reserve degli Stati Uniti che gioca un ruolo
guida, se non di dominio, sul palcoscenico globale. Ma sin dal principio (da
collocarsi nel 1694 nel contesto britannico), il loro ruolo è stato quello di
proteggere e fare da paracadute per i banchieri, e non di prendersi cura del
benessere delle popolazioni. Il fatto che gli Stati Uniti siano potuti uscire
dalla crisi, in termini statistici, nell'estate del 2009, e che i mercati
azionari abbiano potuto pressoché ovunque recuperare le loro perdite, è
completamente da imputarsi alle politiche della Federal Reserve. Fa ciò presagire
un capitalismo globale condotto dalla dittatura dei banchieri centrali, il cui
incarico prioritario è quello di proteggere il potere delle banche e dei
plutocrati? Se così fosse, allora sembrano proporsi poche prospettive per una
soluzione agli attuali problemi di economie in stagnazione e caduta del tenore
di vita della massa della popolazione mondiale.
C'è
inoltre un gran chiacchiericcio sulle prospettive di una correzione tecnologica
dell'attuale malessere economico. Anche se l'accorpamento di nuove tecnologie e
nuove forme organizzative ha sempre giocato un ruolo rilevante nel facilitare
l'uscita dalle crisi, non ne ha mai giocato uno decisivo. Oggi la speranza pare
focalizzarsi su un capitalismo basato sulla conoscenza (con ingegneria biomedica,
genetica ed intelligenza artificiale in prima linea). Ma l'innovazione è sempre
un'arma a doppio taglio. Gli anni Ottanta, dopotutto, ci hanno consegnato una
deindustrializzazione attraverso l'automazione, come quella che ha oggi
soppiantato quale più grande fonte di impiego privata negli Stati Uniti General
Motors (che impiegava una forza lavoro ben pagata e sindacalizzata negli anni
Sessanta) con Walmart (con una forza lavoro per lo più malpagata e non
sindacalizzata). Se l'attuale accelerata di innovazione conduce in una
direzione, essa volge verso minori opportunità di impiego per la manodopera e
la crescente importanza di rendite estratte dai diritti di proprietà
intellettuale per il capitale. Ma se tutti provano a vivere di rendite e
nessuno investe nel produrre nulla, è evidente che il capitalismo è diretto
verso una crisi di natura completamente differente.
Non
sono solo le élite capitaliste ed i loro accoliti accademici e intellettuali a
sembrare incapaci di produrre una rottura radicale col loro passato, o di
definire una via d'uscita percorribile dalla lamentosa crisi di bassa crescita,
stagnazione, ampia disoccupazione e perdita della sovranità statale in favore
dei possessori di obbligazioni. Le forze della sinistra tradizionale (partiti
politici e sindacati) sono totalmente incapaci di costruire una solida
opposizione al potere del capitale. Sono stati abbattuti da trent'anni di
aggressione ideologica e politica da parte della destra, mentre il socialismo
democratico ha perso credibilità. Lo stigmatizzato collasso del socialismo
reale e la “morte del marxismo” dopo il 1989 hanno peggiorato le cose. Ciò che
rimane della sinistra radicale opera oggi per lo più al di fuori di ogni canale
di opposizione istituzionale od organizzata, nella speranza che azioni di breve
respiro e l'attivismo locale possano condurre alla fine a quale forma
soddisfacente di alternativa macro. Questa sinistra, che stranamente echeggia
una retorica libertaria e talvolta neoliberale di antistatalismo, viene
intellettualmente cresciuta da pensatori come Michel Foucault e da tutti quelli
che hanno riassemblato le frammentazioni postmoderne sotto la bandiera di un
post-strutturalismo largamente incomprensibile che favorisce una politica
dell'identità mentre rifugge l'analisi di classe. Sono in evidenza ovunque
prospettive ed azioni autonome, anarchiche e localiste. Ma per quanto questa
sinistra cerchi di cambiare il mondo senza prendere il potere, tanto più una
classe capitalista plutocratica si consolida e rimane incontrastata nella sua
possibilità di dominare il mondo senza vincoli. Questa nuova classe dominante è
aiutata da uno stato securitario e della sorveglianza per nulla restio ad usare
i suoi poteri di polizia per reprimere ogni forma di dissenso nel nome
dell'anti-terrorismo.
È
in questo contesto che ho scritto “Diciassette contraddizioni e la fine del
capitalismo”. Il tipo di approccio adottato è piuttosto insolito, in quanto
segue il metodo di Marx ma non necessariamente le sue prescrizioni, e ciò a
monito per i lettori affinché non prendano gli argomenti qui dipanati in una
modalità pedissequa. In questi aridi tempi intellettuali è assolutamente
necessario qualcosa di nuovo nelle modalità di indagine e nelle concezioni
mentali se vogliamo fuggire dall'attuale gap del pensiero economico, politico e
relativo alle politiche. Dopotutto, il motore economico del capitalismo è
chiaramente in grande difficoltà. Si barcolla tra il procedere a singhiozzi e
la minaccia di una brusca frenata o l'esplosione episodica qua e là senza avvertimento.
I segnali di pericolo abbondano in ogni momento nel mezzo delle prospettive di
una vita più appagante per tutti, da qualche parte più avanti. Nessuno pare
avere una comprensione coerente di come, lasciando da parte il perché, il
capitalismo sia così travagliato. Ma è sempre stato così. Le crisi globali sono
sempre state, come disse una volta Marx, “la vera concentrazione e
l'aggiustamento forzoso di tutte le contraddizioni dell'economia borghese”.
Sbrogliare queste contraddizioni potrebbe rivelarsi molto utile per svelare i i
problemi economici che tanto ci affliggono. Chiaramente quello che ci si
propone è un serio tentativo di fare ciò.
È
inoltre sembrato corretto tratteggiare i possibile esiti e le possibili
conseguenze politiche che derivano dall'applicazione di questo peculiare modo
di pensiero ad una comprensione dell'economia politica capitalista. A prima
vista queste conseguenze potrebbero apparire inverosimili, persino
impraticabili o politicamente sgradevoli. Ma è vitale che vengano sollevate
delle alternative, per quanto esse possano apparire esotiche, ed eventualmente
provare ad agguantarle qualora le condizioni lo dovessero imporre. In questo
modo può essere aperta una finestra su un intero campo di possibilità
inesplorate e non considerate. Abbiamo bisogno di un forum aperto –
un'assemblea globale, per così dire – per considerare dove sia il capitale,
verso che direzione si stia muovendo e che cosa possa essere fatto al riguardo.
Spero che questo libretto possa apportare qualcosa al dibattito.