di
Elisabetta Teghil
Recuperare
la storia e la memoria del movimento femminista, storia e memoria che vengono
stravolte, manipolate, falsificate riducendo la trasgressione femminista ad un
percorso di emancipazione dai tratti deterministici dove il miglioramento della
nostra condizione sarebbe graduale e ineluttabile in una società che
progredisce nell’attenzione alle diversità e ai diritti
Gli
anni del femminismo sono stati gli anni del desiderio. Di fronte alla “miseria”
offerta dal trascinamento dal femminista al femminile, l’accento sul femminismo
e sulla nostra liberazione si presenta come altro, come una scommessa, un
impegno oltre il presente. Momento attuale che pretende di annullare il
conflitto e la ribellione e di piegare tutte/i rassegnate/i al dominio della
merce.
E,
a questo progetto, rinnovato ma sempre uguale, di oppressione su di noi, a
questa dissipazione della libertà e dell’esistenza, le complici tendono a
negare le loro responsabilità.
Anzi,
chiamandosene fuori, se ne rendono, proprio in questo modo, attive e partecipi
anche e, soprattutto, nel banale dispiegamento della vita quotidiana.
In
prima fila ci sono le femministe riformiste, socialdemocratiche, le ortopediche
del “politicamente corretto”, psicologhe, assistenti sociali, psichiatre,
poliziotte “buone”…direttore di carceri… piddine e le loro appendici e similari
e annesse e connesse… che nella loro non bella moltitudine, nella forza che
viene loro dai media e dalle Istituzioni, si mostrano e sono particolarmente
disponibili alla cultura mortifera che ammorba il presente: vittimismo, quote
rosa, comitati per le pari opportunità….sono note di una stessa partitura, sono
la favola delle vecchie idee con lieto fine che si ripromette di sottomettere
le esistenze concrete dei soggetti reali al rinnovato dominio del capitale e
del patriarcato.
L’aspetto
più evidente è l’assenza del soggetto, della donna, dell’oppressa. La
declinazione delle proprie responsabilità è compresa entro lo scenario della
moderna autopromozione.
Il
femminismo della falsa coscienza appare oggi al suo culmine e si coniuga con la
cultura del rifiuto della politica, del superamento del separatismo, della
negazione della lotta di classe, con l’affermazione ottusamente ottimistica
che, in fondo, qui, in questa società, si può essere felici.
Tutto
questo nasconde la presa di distanza opportunistica da ogni responsabilità e
salva la faccia mobilitandosi per gli avvenimenti del passato o di altri paesi.
In
questo contesto ci si trasforma in cantori dell’esistente e delle sue ragioni:
se pure storia c’è stata, anch’essa non c’è più e si sfocia, come conseguenza
naturale, nel darwinismo sociale, nella condanna delle/dei più deboli, di chi
non ce l’ha fatta.
Le
oppresse/i e le sconfitte/i sono l’altro, il disordine, generano la paura e
quest’ultima si traduce in una sorta di ossessiva coazione all’ordine.
L’unica
via indicata da sempre dai teorici reazionari, oggi è diventata il mantra
ossessivo della sinistra riformista. Bisogna tenere a bada le oppresse e gli
oppressi, rinchiuderli nel recinto del dominio: è questo il territorio della
politica socialdemocratica e riformista, quello che definisce e impone le
regole del gioco della vita.
Siamo
rinchiuse in una gabbia di segni ideologici e culturali della società
patriarcale e borghese, una gabbia che hanno costruito per noi e l’hanno
chiamata “normalità”.
La
nostra “normalità” è così l’esecuzione automatica, inconscia, della
programmazione che il capitale, in cui attualmente il patriarcato si esprime,
ha costruito per noi.
All’ingiunzione
di regole di comportamento dettate dall’ideologia vincente si accompagnano
sempre precisi divieti, stigma e punizione.
Per
questo il divieto e la paura di infrangerlo e relative conseguenze soffocano il
nostro presente e il nostro futuro.
E
non soltanto la nostra vita, ma anche le nostre lotte vorrebbero che fossero
rinchiuse nella gabbia preparata per noi. Vorrebbero farci correre sulla
ruota come i criceti, con l’illusione di arrivare da qualche parte, con
l’illusione di cambiare qualcosa e vorrebbero farci girare sempre in tondo.
Vorrebbero farci fare processioni per chiedere qualche grazia che una
volta elargita sarebbe comunque un atto di potere e come tale, con lo stesso
atto, potrebbe essere tolta.
Questa
gabbia si può spezzare solo ponendo le nostre pratiche sociali e politiche in
rapporto antagonistico con l’intera società borghese patriarcale che per
attuare le strategie di controllo sociale usa strumenti diversi e, tra questi
strumenti, in questo momento neoliberista, hanno un’importanza fondamentale la
socialdemocrazia e il riformismo, comprese le componenti femminili, che nelle
reti della comunicazione quotidiana fanno la guerra alla memoria e all’identità
del movimento femminista, manipolandone la storia, strumentalizzando
l’oppressione di genere, di razza, i diritti umani….falsificando la lettura
della società e tentando di farne dimenticare la struttura e la divisione in
classi.
Creando,
così, una società che fa dell’antirazzismo-razzista, dell’antisessismo-sessista
e della strumentalizzazione dei diritti il grimaldello per addomesticare le
coscienze.
Per
questo esclude dal circuito della vita politica, se non dalla vita stessa,
tutte/i quelle/i che non si rassegnano a quelle regole, siano femministe, siano
valsusine, nomuos, nodalmolin, immigrate/i senza permesso di soggiorno,
lavorator/trici espulsi/e dal mondo del lavoro….. Si produce così una ideologia
che non si presenta come tale, ma tale è, cioè quella della fine
dell’ideologia. Quest’ultima si rappresenta e si racconta come democrazia
moderna, come cultura dell’integrazione, del progresso di cui si tessono
generosamente le lodi.
Tutto
questo si accompagna al venir meno della speranza di una vita migliore che
valga la pena di essere vissuta, che invece per i cantori di questa società già
sarebbe e chi non se ne accorge e non ne gode è responsabile e se si ribella
rientra nel campo del penale e del patologico.
È
demonizzato ogni tentativo passato o presente di cambiamento che prenda le
mosse da un’idea di soggetto che voleva e vuole sottrarsi alla mercificazione
della vita portata a sviluppo nella sua totalità con il neoliberismo, forma
compiuta e attuale dell’autoespansione del capitale.
Impostazione
che relega ogni forma di opposizione e di alterità nel campo del nulla e
dell’inutilità.
Il
soggetto, l’individuo, per sopravvivere deve scomparire nascondendosi nelle
pieghe dell’esistente a cui non è permesso in nessun modo di opporsi.
Si
teorizza la fine di ogni possibilità di lotta, di liberazione o di invenzione.
Il
capitalismo sarebbe “superato”, la società patriarcale “non ci sarebbe più”.
In
questo contesto il separatismo femminista ha una rilevanza vitale perché, come
pratica di sottrazione rispetto al maschile dominante, svela la natura
strutturale dell’oppressione di genere, ribadendo l’origine socio-economica dei
ruoli e di quelli sessuati, smascherando il tentativo di riduzione della lotta
delle donne ad una generica conflittualità tra i sessi che dovrebbe essere
risolta secondo la visione riformista/neoliberista attraverso un collaborativo
confronto fra maschile e femminile con l’annullamento delle differenze
politiche, dei ruoli nella società, della storia e della memoria della
conflittualità, non solo di genere, e della divisione in classi della società.
La
scomparsa o il tentativo di rimuovere il desiderio di lottare si accompagna al
venir meno della speranza di una vita migliore, cammina con la sussunzione
reale della vita al neoliberismo.
Per
questo assume un’importanza fondamentale il recupero della storia e della
memoria del movimento femminista, storia e memoria che vengono stravolte,
manipolate, falsificate riducendo la trasgressione femminista ad un percorso di
emancipazione dai tratti deterministici dove il miglioramento della nostra condizione
sarebbe graduale e ineluttabile in una società che progredisce nell’attenzione
alle diversità e ai diritti.
In
questa società il soggetto tende a rimpicciolirsi mimetizzandosi nelle pieghe
dell’esistente a cui pare non possa più opporre niente e tanto meno inventare
qualcosa d’altro.
È
la fine di ogni possibilità di liberazione.
Tutto
passa attraverso le Istituzioni e dentro le Istituzioni, nella partecipazione a
queste ultime.
Ma,
proprio da questa situazione nasce la necessità, anche solo reattiva, di dire
no all’angoscia mortifera che accompagna la vita.
È
necessario spezzare la “normalità” in cui ci vogliono imbrigliare cercando,
trovando, creando fessure, crepe, spiragli, squarci che si aprono ogniqualvolta
c’è, della normalità, una sospensione.
Nei
momenti in cui si rompe il meccanismo di assuefazione, per motivi che possono
essere occasionali o provocati… che possono avvenire nella vita quotidiana o
nelle lotte.. si aprono scenari e immaginari oltre la ragionevolezza, oltre la
possibilità…
Tanto
più si cantano peana a questa società come migliore dei mondi possibili e
orizzonte insormontabile, si sbandierano sulla stessa giudizi positivi che
presuppongono tutt’al più qualche miglioramento, che magari coincide con quello
personale o di categoria, tanto più è necessario l’impegnarsi che è addirittura
di sopravvivenza e il sottolineare la differenza e l’alterità che nascono dalla
consapevolezza del dolore, delle lacerazioni, delle sofferenze in cui sono
gettati gli oppressi tutti e le donne in particolare.
È
necessario recuperare la voglia di esprimere il desiderio e lo sforzo di
realizzarlo.
Raccontata
la presunta realizzazione delle nostre aspettative, siamo precipitate nello
smarrimento e nello spaesamento e, nella sua impudenza, il sistema non solo
pretende che si debba accettare la realtà, ma che si debba prendere parte
attiva alla rappresentazione teatrale.
Agli
oppressi/e è negato anche ogni virtuoso impegno per il cambiamento che non
passi per la cooptazione individuale, armi e bagagli, nelle file degli
oppressori in un ruolo di servizio.
L’iper
borghesia o borghesia imperialista si ripropone come nuova aristocrazia,
riducendo alla disperazione, nel suo processo di autovalorizzazione, non solo
le classi tradizionalmente sottomesse, ma anche le restanti frazioni della
borghesia.
È
stata spazzata via la vecchia rappresentazione del potere e delle gerarchie
sociali nate dalla rivoluzione borghese.
Da
qui la necessità di individuare le fessure, i momenti di rottura, i punti di
fuga e di imparare ad esistere e resistere in questa società contemporaneamente
feudale, aristocratica e nazista.
Abbiamo
permesso ai conquistatori di questa società di distruggere tutte le forme di
resistenza e, addirittura i segni e i segnali. Non ci sono più, o almeno così
vorrebbero, cartelli segnaletici.
Ma
noi pensiamo e dobbiamo oltrepassare la miseria morale, politica, economica di
questa vita che è il nostro tempo.
Proprio
nella stagione del disincanto dobbiamo trovare i motivi per recuperare e,
magari, vivere, il desiderio e l’esigenza del paradiso perduto.
Dobbiamo
ritrovare la dimensione del femminismo materialista, della lotta di classe
attraverso pratiche politiche diffuse, critiche e creative, di cui è parte
imprescindibile la denuncia delle forme date dal potere patriarcale e
neoliberista, e produrre soggettività e solidarietà.
In
questa società, mai così classista, razzista e patriarcale, dobbiamo porci i
problemi decisivi della libertà, dell’esistenza e della vita dei/delle più.
Problemi che non vogliamo e non possiamo eludere.
Praticare
e diffondere la ricerca di altro e la critica all’insostenibilità di questa
società.
Come
femministe materialiste, senza illusioni ma senza remissione, diciamo ancora no
e affidiamo la nostra vita alla nostra capacità di inventarla insieme con le
altre.
Nulla
è scontato. Nulla è dato una volta per tutte. Dentro l’attacco terroristico del
dominio si svela la violenza delle Istituzioni che produce solitudine e
disperazione, ma si riscopre anche il desiderio gioioso di negazione.
È
sempre lo stesso vento che si leva a spingerci verso lo stesso obiettivo, la
liberazione nostra e degli oppressi tutti.
La
strada non è senza asperità e intralci, ma è l’unica che vale la pena di
percorrere.
Se
questa esistenza ha un senso è disconoscere che la sua esistenza sia
giustificata e giustificabile.
Ci
deve essere e c’è il senso dell’altro e, prima ancora, della possibilità.
Ogni
cosa che è potrebbe anche essere diversa.
Il
senso della possibilità è la capacità di pensare tutto quello che potrebbe
essere, è sconfessare quello che è, è costruire quello che non è.
Tutto
ciò disvela quanto falso sia tutto quello che le socialdemocratiche e
riformiste ammirano e quanto sia necessario ricomporre la ricerca di segni e
tracce del possibile.
Questo
passa attraverso la composizione di desiderio e passione, voglia e obiettivi. È
l’unione tra il soggettivo e il senso
del reale, la pratica di vita e la nostra immaginazione.
È
negare le identità spacciate per
presupposte e definitive e pensare ai nostri sogni, alle nostre differenze .
Il
vivere non è statico, non è “moderno”, ma ne è l’attraversamento, il passaggio
tra le fessure che permettono di individuare la possibilità di oltrepassare gli
involucri del paesaggio stesso.
Questo
dà il senso al femminismo materialista di superare l’orizzonte ostruito dalla
siepe dell’emancipazionismo, una politica asservita alla conservazione
dell’esistente e utilizzata come pratica di autopromozione.
Questo
è un modo di impegnarci in cui vita e politica non siano separate, che si
dipana nella trasformazione del possibile, che fa i conti con la pesantezza del
momento, ma mette in pratica l’idea che un’altra società sia possibile.
È
il rifiuto, senza compromessi dell’arroganza e intolleranza di questa società
neoliberista che gattopardescamente tutto cambia per non cambiare niente e che
ripropone il principio da rifiutare, il principio di sempre, del normativamente
costituito, che rinnova il consenso e recupera la legittimazione di questa
società razzista e patriarcale spostando sempre l’attenzione al passato e ad
altri paesi, così da mascherare quelli che sono i suoi veri intenti.
E
tutto si risolve nel correre a tamponare la crisi di legittimazione che questa
società e il suo dominio hanno.
Un’impostazione
che perpetua la dicotomia governanti/governati e si traduce, quando si ottiene
qualche cosa, in una concessione da parte del potere.
Si
perpetua, in un meccanismo che si riproduce, il rapporto Stato che detiene il
potere e “altro” che sono i cittadini/e e, questi ultimi/e, diventano soggetto
solo in quanto sono assoggettati. Si omette che lo Stato possiede il monopolio
della forza che pretende legittima, e la esercita in maniera tale da essere,
sì, legale, perché legalmente convalidata, ma illegittima per la rottura del contratto
sociale.
Per
cui lo Stato reprime i popoli, le classi, i generi che disubbidiscono e si
ribellano, ma non si limita a sottometterli e a punirli, pretende dagli
oppressi il pentimento ed il riconoscimento della legittimità del dominio e, a
questo scopo, servono i socialdemocratici, le componenti socialdemocratiche
riformiste del femminismo, le prefiche della non violenza, le vestali della
legalità, le ong, le onlus, i media…..
La
ri-legittimazione del dominio si presenta come la necessità prioritaria del
capitale e si dispiega attraverso il neocolonialismo nei paesi del terzo mondo
e nel disciplinamento e nella colonizzazione del quotidiano e dei territori
nelle società occidentali.
L’adesione
a questa offensiva a tutto campo di riaffermazione del dominio si presenta e
vuole essere avallata come fondamento di ogni virtù.
Da
qui la necessità di riaffermare la soggettività dei popoli, delle donne, degli
oppressi tutte/i, la loro autonomia e la loro libertà per loro stessi/e e per
gli altri/e.
Si
tratta del diritto alla vita dei popoli e delle singole/i di fronte
all’omologazione delle nuove forme di oppressione che qui e ora si manifestano
e che producono sofferenza, chiusura dello spazio sociale, annullamento di ogni
dissenso.
In
pratica è necessario smascherare quella che è l’essenza dello Stato
autoritario, la richiesta di ordine, di legalità che è divenuta debordante e
che nega, all’origine, la partecipazione delle singole/i alla vita pubblica, se
mai questa fosse possibile, e le vicende della Val di Susa ne sono l’esempio
più lampante.
Uno
Stato che reprime il diritto di ribellione, che pretende il riconoscimento del
monopolio del dominio e della violenza e una legittimazione anticipata e
concessa una volta per tutte alle sue scelte.
Per
questo il femminismo materialista ha una funzione importante per indagare le
forme attuali dei sistemi liberali e per venire così all’individuazione e
ottenere i requisiti necessari all’affrancamento da questa società e alla
costruzione di un’altra attraverso una radicale modificazione nei processi di
socializzazione e nella stessa costruzione dei soggetti.
La
storia ha le sue leggi e i suoi soggetti, e noi siamo parte del soggetto.
Il
femminismo o è liberatorio o non è.
Mai
c’è stato bisogno del femminismo materialista e del separatismo come in questa
stagione buia della vittoria della società del capitale e del patriarcato
attuata attraverso i socialdemocratici/che e i riformisti/e.
Viviamo
nella negazione appassionata del presente e del desiderio felice nel presente per
il futuro.
Lungo
questo cammino troveremo anche le anticipazioni del nuovo, nella pratica
sovversiva comune.
Ribellarsi
è giusto contro il nuovo oscurantismo, la mascherata, ma non tanto,
colonizzazione borghese patriarcale del quotidiano.