di Marco Bascetta
sostituire alla sinistra italiana, alle sue
baruffe paesane e ai suoi galatei giustizialisti, una sinistra europea
che tragga dalla scala stessa su cui opera la sua radicalità. Uno strappo nel tessuto «moderato»
e miope della politica nostrana, forzandone riti, vincoli e confini
Non
pochi sono i malumori e le critiche che la lista Tsipras
e tutto ciò che le ruota intorno stanno suscitando in questi giorni,
soprattutto negli ambienti più radicali. Ne è un esempio la «lettera aperta», piuttosto livorosa, che Carlo Formenti ha dedicato
all’argomento, accusando l’intera operazione di narcisismo professorale
e accecamento elettorale.
Accenti
così aspri si potrebbero capire se questo o quel «miraggio elettorale»
stesse rischiando di distogliere energie e attenzione in una fase di
forte espansione dei movimenti o addirittura di condizionarne la
percezione e manipolarne il senso di marcia. Ma con tutta evidenza
questo scenario non corrisponde in alcun modo alle attuali circostanze,
per quanto ottimismo si possa spendere nella loro lettura. Cosicché il linguaggio
del purismo antiborghese suona più che altro come un esercizio di maniera.
Tuttavia
vi è un motivo di allarme che converrebbe raccogliere. Cominciando
col chiarire un pericoloso equivoco di fondo. La lista Tsipras non
è e non può essere un progetto, sia pure aperto, di ricostruzione della
sinistra italiana, di ricomposizione dei suoi mediocri frammenti sparsi
combinati con le eccellenze della mitica «società civile». La via obliqua
per restaurare una formazione politica nazionale alla quale, probabilmente,
alcuni di coloro che si sono schierati, in mancanza d’altro, sotto le insegne
del giovane leader di Syriza aspirano. Una operazione di questo tipo non
avrebbe alcuna ragione di parlare in greco. E infatti si tratta,
o dovrebbe trattarsi, esattamente del contrario. Di sostituire,
cioè, alla sinistra italiana, alle sue baruffe paesane e ai suoi galatei
giustizialisti, una sinistra europea che tragga dalla scala stessa su cui
opera la sua radicalità. Per dirla ancor più ruvidamente, bisogna impedire
che la sinistra nel nostro paese si rifondi come «sinistra italiana», come
riesumazione di questa salma.
Tutto
ciò, sia chiaro, muove essenzialmente sul piano simbolico: nessuno dotato
di buon senso può infatti immaginare che i rapporti di forza tra le oligarchie
finanziarie e le popolazioni del vecchio continente possano essere
modificati per via parlamentare (per di più trattandosi di un Parlamento,
come quello europeo, sottoposto a rigidi vincoli e povero di
poteri reali). E, tuttavia, l’occasione elettorale può rivelarsi un buon
terreno sul quale cominciare a elaborare un pensiero e un linguaggio
che separino definitivamente l’aspirazione alla trasformazione dei rapporti
sociali dalla dimensione nazionale e dalle sclerotiche dinamiche politiche
che vi si svolgono. Tanto maggiore sarà il valore della lista Tsipras quanto
più riuscirà ad essere «non italiana» e, per certi versi, «antitaliana». È
questo il solo vero antidoto alla riedizione degli «arcobaleni»
e delle «rivoluzioni civili» in cui si è ultimamente esibita,
con scarso successo di pubblico, la nostra commedia dell’arte politica.
Uno strappo, insomma, nel tessuto «moderato» e miope della politica
nostrana, forzandone riti, vincoli e confini. Uno strappo che Martin
Schulz, bandiera di partiti largamente compromessi con il salasso liberista
del vecchio continente, non potrebbe in alcun modo rappresentare.
Pensare
la ricostruzione «sociale» e democratica dell’Europa come una sommatoria
di successi delle sinistre nazionali (riesumando il mito, che anche Syriza
fatica troppo ad abbandonare, dell’«effetto domino»), è un punto di
vista che contraddice in pieno la dimensione globale e internazionalista
nella quale la rivoluzione sociale era stata pensata prima che lo statalismo
e il nazionalismo le imponessero il loro guinzaglio. Dopo le catastrofi
che ne sono conseguite è a quella dimensione che dovremmo cercare di
fare ritorno. Rileggendo in questa chiave la necessità dell’Unione europea.
Come una necessità tanto indipendente dall’ordine «indiscutibile» dei mercati
quanto avversa all’ordine disciplinare degli stati-nazione che lo asseconda
anche quando fa mostra di denunciarne le pretese.
Tracciare
questo orizzonte, smontare le demagogie nazionaliste, denunciare le
complicità delle classi dirigenti nazionali con le oligarchie finanziarie
è quanto si può chiedere a chi sceglie il terreno della competizione
elettorale. Non è certo «uno spettro che si aggira per l’Europa», ma
sarebbe già qualcosa.