domenica 16 marzo 2014

La socializzazione degli investimenti: contro e oltre Keynes

di Riccardo Bellofiore

“Keynes era per varie ragioni convinto di una tendenza al ristagno nel capitalismo sviluppato, una previsione su cui fu smentito, e su cui pesavano errori significativi contenuti nella sua costruzione teorica. Ne traeva perciò la conclusione che fosse opportuna una significativa ‘socializzazione dell’investimento’, unico strumento in grado di condurci nella zona della piena occupazione delle risorse produttive, incluso il lavoro”  [il contributo dedicato agli economisti critici italiani è estratto dal saggio pubblicato in Alternative per il socialismo, marzo/aprile n. 30, 2014]

Federico Caffè, Augusto Grazianie Claudio Napoleoni
Criticando i keynesiani Paul M. Sweezy, a ragione sosteneva che parlare di riformare il capitalismo significava peccare di ingenuità o di doppiezza. Il capitalismo difenderà fino in fondo i suoi privilegi, consentendo soltanto quelle riforme e quel margine di libertà ai riformatori che non tocchino i loro interessi.
Federico Caffè era sicuramente un riformista, pur a un certo punto disilluso e disperato. Ma certo non ingenuo. Cita il Franco Fortini che sul Corriere della sera scrive che “lo sviluppo capitalistico, grazie alle sue crisi e ai suoi ritorni, drena sempre nuovi strati sociali, produce anzi sempre nuovi colonizzati interni, almeno da noi, da usare come deterrente nei confronti del lavoro comunque privilegiato”. La alternativa che propone è una economia di piena occupazione, ma è chiaro – aggiunge - che ciò dipende da una riforma fondamentale del contesto istituzionale. Di questa riforma fanno parte controlli sul commercio con l’estero, controlli sui prezzi, controlli sulla localizzazione delle industrie, estensione dell’azione dello Stato anche ai fini della regolamentazione complessiva dell’investimento privato.
Forse alludendo a Abba P. Lerner, la definisce una vera e propria ‘economia dei controlli’. Di più, si tratterebbe di una autentica ‘amministrazione globale della offerta’. Siamo chiaramente nello stesso orizzonte di Minsky, quello di una socializzazione industriale e della struttura produttiva, della banca e della finanza, dell’occupazione. Di fatto, e di nuovo, della rimessa in questione del ‘che cosa’, ‘quanto’ e ‘per chi produrre’ – qualcosa a cui una sinistra autentica non può non aggiungere una rimessa in questione anche del ‘come’ produrre. Caffè qualifica questa prospettiva come ‘riformismo gradualistico’, ma non si vede (almeno, io non vedo) proprio cosa vi sia di moderato in tutto ciò. Tant’è che lui stesso rimanda a Gramsci che scrive che si tratta di proporre fini discreti, raggiungibili pur nell’intento di approfondirli ed estenderli.

Se cerchiamo da noi l’esempio massimo di un keynesismo ‘strutturale’, mille miglia lontano dal keynesismo corrente e un po’ facile degli economisti alternativi dei nostri giorni, l’autore a cui penserei per primo è però Augusto Graziani: non a caso un autore che ha costruito il suo pensiero più originale sulla critica al Keynes della Teoria generale, e sul recupero semmai del Keynes del Trattato sulla moneta. Per quel Keynes - come per Wicksell, Schumpeter, e prima ancora Marx - l’accesso privilegiato alla moneta è ‘comando’ sulle decisioni attinenti alla produzione e alla occupazione. Quell’accesso è, certo, prerogativa anche dei governi: ma Graziani non ha mai ceduto a illusioni ‘sovraniste’; né gli si fa un gran servizio nel ridurlo a un postkeynesiano, ad un ‘eterodosso’ tra i tanti, fautore di politiche espansive della domanda effettiva, e magari di una qualche svalutazione corretta ‘da sinistra’. Graziani ha sempre ben chiara la natura di classe delle decisioni politiche; e ha sempre rigorosamente distinto tra governo e Banca Centrale. Per lui, il conflitto sociale – che si svolge fuori dall’arena del mercato è di natura, in senso lato, politica: come per Kalecki, il riferimento è non tanto alle lotte sul salario, piuttosto alle lotte nella produzione, che può (e deve) imporre i contenuti della spesa pubblica.
Graziani si è inoltre ben guardato dal farsi fautore di un aumento generico della domanda. I fallimenti del sistema privato sono profondi, e i bisogni collettivi sono insoddisfatti: proprio per questo, sostiene, ogni spesa va accuratamente valutata e indirizzata ad una composizione del prodotto che sia socialmente utile. Lo Stato deve inoltre assicurare ai cittadini, per così dire ‘in natura’, la disponibilità reale di beni e servizi, andando al di là di una politica di meri sussidi monetari o di riduzioni fiscali. Per ultimo ma non da ultimo, lo Stato ha la responsabilità di aprire la strada ad un investimento che migliori la qualità strutturale dell’economia in un orizzonte di lungo periodo che solo lui può garantire. Di nuovo, siamo nell’orizzonte della ‘socializzazione degli investimenti’ intesa in un senso complessivo e radicale.
È  indubitabile che troppe siano le differenze tra Graziani e Claudio Napoleoni per accomunarli in modo generico sotto un’unica prospettiva. Pure, è altrettanto indiscutibile che esista una convergenza, almeno sul problema. In un intervento al CESPE del 1987, poi raccolto in un volumetto dal titolo: “Quali risposte alle politiche neo-conservatrici?”, Napoleoni ribadisce l’importanza di ripristinare il vincolo ‘interno’, cioè di una spinta sociale sul terreno distributivo, che può incarnarsi in un aumento dei salari ma anche in una riduzione dell’orario di lavoro. L’economista abruzzese non è contrario ad una politica prudente del cambio, che reputa (se accoppiata alla riproposizione del vincolo ‘interno’) in grado di ripristinare una dialettica di classe, e di costringere le imprese a un cambiamento strutturale. Che ne è in questa prospettiva del ‘risanamento’ del bilancio pubblico? Sostiene questo Napoleoni che dell’intervento sul bilancio pubblico se ne può fare una bandiera solo dentro un’operazione più complessiva che non solo agisca sulla distribuzione del reddito ma che intervenga anche sulle determinanti strutturali dell’economia e della società. Una politica che riduca la dipendenza dall’estero, che investa in grandi infrastrutture, che governi il mutamento tecnologico in maniera da indirizzare l’aumento di produttività verso un aumento della quota del nuovo valore che va al lavoro, di un minor tempo di lavoro nella sfera della produzione, di una più equilibrata ripartizione del lavoro di riproduzione, di un maggior rispetto della natura. Cosa è questa se non ‘socializzazione degli investimenti’?