di
Riccardo Bellofiore
“Keynes
era per varie ragioni convinto di una tendenza al ristagno nel capitalismo
sviluppato, una previsione su cui fu smentito, e su cui pesavano errori
significativi contenuti nella sua costruzione teorica. Ne traeva perciò la
conclusione che fosse opportuna una significativa ‘socializzazione
dell’investimento’, unico strumento in grado di condurci nella zona della piena
occupazione delle risorse produttive, incluso il lavoro” [il
contributo dedicato agli economisti critici italiani è estratto dal saggio
pubblicato in Alternative per il socialismo, marzo/aprile n. 30, 2014]
Federico Caffè, Augusto Graziani, e
Claudio Napoleoni
Criticando
i keynesiani Paul M. Sweezy, a ragione sosteneva che parlare di riformare il
capitalismo significava peccare di ingenuità o di doppiezza. Il capitalismo
difenderà fino in fondo i suoi privilegi, consentendo soltanto quelle riforme e
quel margine di libertà ai riformatori che non tocchino i loro interessi.
Federico
Caffè era sicuramente un riformista, pur a un certo punto disilluso e
disperato. Ma certo non ingenuo. Cita il Franco Fortini che sul Corriere
della sera scrive che “lo sviluppo capitalistico, grazie alle sue
crisi e ai suoi ritorni, drena sempre nuovi strati sociali, produce anzi sempre
nuovi colonizzati interni, almeno da noi, da usare come deterrente nei
confronti del lavoro comunque privilegiato”. La alternativa che propone è una
economia di piena occupazione, ma è chiaro – aggiunge - che ciò dipende da una
riforma fondamentale del contesto istituzionale. Di questa riforma fanno parte
controlli sul commercio con l’estero, controlli sui prezzi, controlli sulla
localizzazione delle industrie, estensione dell’azione dello Stato anche ai
fini della regolamentazione complessiva dell’investimento privato.
Forse
alludendo a Abba P. Lerner, la definisce una vera e propria ‘economia dei
controlli’. Di più, si tratterebbe di una autentica ‘amministrazione globale
della offerta’. Siamo chiaramente nello stesso orizzonte di Minsky, quello di
una socializzazione industriale e della struttura produttiva, della banca e
della finanza, dell’occupazione. Di fatto, e di nuovo, della rimessa in
questione del ‘che cosa’, ‘quanto’ e ‘per chi produrre’ – qualcosa a cui una
sinistra autentica non può non aggiungere una rimessa in questione anche del
‘come’ produrre. Caffè qualifica questa prospettiva come ‘riformismo gradualistico’,
ma non si vede (almeno, io non vedo) proprio cosa vi sia di moderato in tutto
ciò. Tant’è che lui stesso rimanda a Gramsci che scrive che si tratta di
proporre fini discreti, raggiungibili pur nell’intento di approfondirli ed
estenderli.
Se
cerchiamo da noi l’esempio massimo di un keynesismo ‘strutturale’, mille miglia
lontano dal keynesismo corrente e un po’ facile degli economisti alternativi
dei nostri giorni, l’autore a cui penserei per primo è però Augusto Graziani:
non a caso un autore che ha costruito il suo pensiero più originale sulla
critica al Keynes della Teoria generale, e sul recupero semmai del
Keynes del Trattato sulla moneta. Per quel Keynes - come per
Wicksell, Schumpeter, e prima ancora Marx - l’accesso privilegiato alla moneta
è ‘comando’ sulle decisioni attinenti alla produzione e alla occupazione.
Quell’accesso è, certo, prerogativa anche dei governi: ma Graziani non ha mai
ceduto a illusioni ‘sovraniste’; né gli si fa un gran servizio nel ridurlo a un
postkeynesiano, ad un ‘eterodosso’ tra i tanti, fautore di politiche espansive
della domanda effettiva, e magari di una qualche svalutazione corretta ‘da
sinistra’. Graziani ha sempre ben chiara la natura di classe delle decisioni
politiche; e ha sempre rigorosamente distinto tra governo e Banca Centrale. Per
lui, il conflitto sociale – che si svolge fuori dall’arena del mercato è di
natura, in senso lato, politica: come per Kalecki, il riferimento è non tanto
alle lotte sul salario, piuttosto alle lotte nella produzione, che può (e deve)
imporre i contenuti della spesa pubblica.
Graziani
si è inoltre ben guardato dal farsi fautore di un aumento generico della
domanda. I fallimenti del sistema privato sono profondi, e i bisogni collettivi
sono insoddisfatti: proprio per questo, sostiene, ogni spesa va accuratamente
valutata e indirizzata ad una composizione del prodotto che sia socialmente
utile. Lo Stato deve inoltre assicurare ai cittadini, per così dire ‘in
natura’, la disponibilità reale di beni e servizi, andando al di là di una
politica di meri sussidi monetari o di riduzioni fiscali. Per ultimo ma non da
ultimo, lo Stato ha la responsabilità di aprire la strada ad un investimento
che migliori la qualità strutturale dell’economia in un orizzonte di lungo
periodo che solo lui può garantire. Di nuovo, siamo nell’orizzonte della
‘socializzazione degli investimenti’ intesa in un senso complessivo e radicale.
È
indubitabile che troppe siano le
differenze tra Graziani e Claudio Napoleoni per accomunarli in modo generico
sotto un’unica prospettiva. Pure, è altrettanto indiscutibile che esista una
convergenza, almeno sul problema. In un intervento al CESPE del 1987, poi
raccolto in un volumetto dal titolo: “Quali risposte alle politiche
neo-conservatrici?”, Napoleoni ribadisce l’importanza di ripristinare il
vincolo ‘interno’, cioè di una spinta sociale sul terreno distributivo, che può
incarnarsi in un aumento dei salari ma anche in una riduzione dell’orario di
lavoro. L’economista abruzzese non è contrario ad una politica prudente del
cambio, che reputa (se accoppiata alla riproposizione del vincolo ‘interno’) in
grado di ripristinare una dialettica di classe, e di costringere le imprese a
un cambiamento strutturale. Che ne è in questa prospettiva del ‘risanamento’
del bilancio pubblico? Sostiene questo Napoleoni che dell’intervento sul
bilancio pubblico se ne può fare una bandiera solo dentro un’operazione più
complessiva che non solo agisca sulla distribuzione del reddito ma che
intervenga anche sulle determinanti strutturali dell’economia e della società.
Una politica che riduca la dipendenza dall’estero, che investa in grandi infrastrutture,
che governi il mutamento tecnologico in maniera da indirizzare l’aumento di
produttività verso un aumento della quota del nuovo valore che va al lavoro, di
un minor tempo di lavoro nella sfera della produzione, di una più equilibrata
ripartizione del lavoro di riproduzione, di un maggior rispetto della natura.
Cosa è questa se non ‘socializzazione degli investimenti’?