di
Enzo Traverso
In una lunga conversazione con Régis
Meyran Enzo Traverso ripercorre la storia e la parabola dell’intellettuale che
da guastafeste e intelligenza critica che afferma la verità contro il potere si
è progressivamente trasformato in “esperto” al servizio dei potenti e
specialista della comunicazione. In questo nuovo paesaggio segnato dalla fine
delle utopie, dalla svolta conservatrice degli anni Ottanta e dalla
mercificazione della cultura, il pensiero dissidente non è però scomparso. Ora
per inventare nuove utopie gli intellettuali dovranno uscire dai loro ambiti
specialistici e ritrovare un atteggiamento universalista.
Le nuove utopie potrebbero venire dai movimenti di
controcultura, apparsi nel dopoguerra contro la cultura di massa?
Mi sembra che oggi la
controcultura degli anni Sessanta e Settanta sia generalmente scomparsa, o che
esista in forme molto limitate. I giovani che si trasferiscono in campagna, per
esempio a Tarnac, per creare una sorta di falansteri moderni, sottraendosi alla
società di mercato, creano una controcultura che vorrebbe diventare un modello.
È un fenomeno interessante ma marginale. Inoltre, l’esperienza del passato
dimostra che la controcultura può farsi assorbire dal sistema di mercato. Molti
autori hanno analizzato la straordinaria capacità del capitalismo di
recuperare, integrare e quindi neutralizzare i movimenti culturali che lo
criticano. Il rock & roll è stato una sfida violenta all’America
autoritaria, conservatrice e puritana degli anni Cinquanta, prima di diventare
uno dei settori più redditizi dell’industria culturale. London Calling, la canzone che i Clash urlavano nel 1979 come
un’esortazione alla rivolta, nel 2012 è diventata l’inno ufficiale dei giochi
Olimpici di Londra, spettacolo planetario e gigantesca kermesse commerciale…
Nel 1989, con la celebrazione del suo bicentenario, la Rivoluzione francese si
è trasformata in un puro spettacolo messo in scena per l’industria culturale.
Ma non restano dei focolai di pensiero critico,
nell’editoria per esempio?
Abbiamo assistito, in
questi ultimi anni, in particolare in Francia, alla nascita di diverse case
editrici alternative che diffondono nuove teorie critiche, senza intenti
commerciali. Certo, sopravvivono con difficoltà, ma si sono ritagliate un loro
spazio nel panorama culturale. Questa scena alternativa, fatta di piccoli
editori e di una rete di librerie, non può essere ignorata. Non è raro, in
Francia, che un grande quotidiano dia conto di un libro pubblicato da Amsterdam o
da La Fabrique. Esperienze simili esistono in Italia, dove
sopravvive un quotidiano come “il manifesto”; in Germania, dove è sempre
esistita una fitta rete di riviste alternative e di case editrici della
sinistra radicale, e in Gran Bretagna, dove Verso ha una storia e una
dimensioni di tutto rispetto. Il successo di una rivista radicale come
“Jacobin” negli Stati Uniti è incoraggiante.
Al contrario, pochi degli intellettuali o delle
persone che provengono da questa cultura alternativa hanno accompagnato gli
attuali movimenti sociali. Come interpretare questa sconnessione tra i (pochi)
intellettuali critici e gli attuali movimenti sociali?
È un problema reale. La
sconfitta storica del 1989 ha fatto si che i movimenti sociali oggi siano
rimasti orfani. Il paradosso della nostra epoca è che essa è ossessionata dalla
memoria, mentre i suoi movimenti di contestazione – gli indignati, la
“primavera araba”, Occupy Wall Street, ecc. – non hanno nessuna memoria… Non
possono inscriversi nella continuità con i movimenti rivoluzionari del
Novecento. Questi movimenti sono animati essenzialmente dai giovani, mentre gli
intellettuali critici sono più anziani: hanno almeno sessant’anni. Dobbiamo
dedurne che vi sia una guerra tra generazioni, anche se non si dice?
Non parlerei di una
guerra tra generazioni. E del resto i giovani intellettuali impegnati sono
numerosi, anche se non hanno la stessa visibilità né il riconoscimento dei loro
predecessori. I movimenti di questi ultimi anni sono alla ricerca di nuove
prospettive, ma non hanno un orientamento politico chiaramente definito. Sono
apparsi in diversi paesi – in Spagna, negli Stati Uniti, in Inghilterra, in
Italia, nei paesi arabi – ma non sono mai riusciti a darsi strutture politiche
permanenti. Si veda il caso di Occupy Wall Street, un movimento di cui si è
parlato molto ma che è quasi scomparso durante la campagna presidenziale del
2012.
Rancière e Badiou sono
filosofi che criticano il potere contemporaneo. Sono molto interessanti, ma non
sono in grado di offrire un progetto ai nuovi movimenti sociali. D’altra parte,
essi non hanno, comprensibilmente, una tale ambizione, e non si presentano come
leader. Rancière ha dato un contributo fondamentale, per ripensare la
democrazia e l’emancipazione, in lavori come La nuit des prolétaires (1981) o
La haine de la démocratie (2005). Badiou, strana figura di comunista platonico,
seduce per l’acutezza della sua critica, il suo stile brillante e la radicalità
del suo pensiero, ma i suoi riferimenti politici sono vecchi –
l’'Organizzazione” (maoista) – e un po’ sconcertanti.
Nell’università, il
pensiero critico è abbastanza vivace. Vi sono filosofi come Giorgio Agamben,
Nancy Fraser, Toni Negri, Slavoj Žižek, storici come Perry Anderson, geografi
come David Harvey, teorici e sociologi della politica come Michael Löwy, Sandro
Mezzadra, Philippe Corcuff e molti altri… Fuori dell’università, vi sono
scrittori e saggisti come Tariq Ali, ecc. Ma quando si svolge a Londra un
convegno sull’“attualità del comunismo”, fa un po’ sorridere. I giovani in ogni
caso non li riconoscono davvero come interlocutori. Negli Stati Uniti, Judith
Butler riempie gli anfiteatri di giovani studenti, ma questa vasta influenza
intellettuale non ha nessun impatto politico.
Si potrebbe dire la
stessa cosa a proposito degli studi postcoloniali. Delle vere e proprie “star”
sono apparse nei campus americani, come i teorici critici di origine indiana
Homi Bhabha e Gayatri Chakravorty Spivak. Per i giovani insorti del Cairo e di Tunisi,
tuttavia, Bhabha e Spivak non rappresentano nulla. La rottura tra intellettuali
critici e movimenti sociali rimane considerevole. Daniel Bensaïd, che è stato
un passatore insostituibile tra le generazioni, così come tra gli intellettuali
e i militanti, considerava questa questione assolutamente decisiva quando ha
creato lo Sprat (Societé pour la résistance à l’air du temps), oggi diventata
Société Louise Michel, e la rivista “Contretemps”.
Possiamo chiederci se il fenomeno non sia anche
strutturale: i baby booumer sono molto numerosi, e detengono i posti chiave
della cultura. Come possono dunque i giovani inventare un’altra utopia, se non
hanno la possibilità di esprimersi, o restano accantonati nei margini?
Certo, la situazione di
chi oggi ha vent’anni non è paragonabile a quella dei baby boomer degli anni
Sessanta. Ma la paralisi dei movimenti di protesta contemporanei non è dovuta
ai baby boomer. Essa dipende dal congiungersi della sconfitta storica delle rivoluzioni
del Novecento con l’avvento di una crisi altrettanto storica del capitalismo,
che priva di futuro una generazione. I più sensibili alle ingiustizie della
società sono i giovani precari, che sono passati attraverso l’università e
hanno avuto accesso alla cultura. Le condizioni per un’esplosione sociale ci
sono tutte, ma non c’è nessun miccia per accendere le polveri. Speriamo che
qualcuno riesca a trovarla nei prossimi anni.
Che cosa differenzia le “rivoluzioni arabe” dalle
rivoluzioni che si sono avute nel passato?
Le rivoluzioni arabe
sono un processo in corso ed è difficile prevederne l’esito, perché le
contraddizioni che le attraversano sono profonde. Si tratta sicuramente di
grandi movimenti che esprimono sia un desiderio irrefrenabile di libertà sia la
sofferenza di una generazione colpita dall’esclusione sociale. In Tunisia e in
Egitto esse hanno rovesciato delle dittature, il che non è una cosa da poco.
Nessuno le aveva previste. Nello stesso tempo però, questi movimenti non sono
stati in grado di proporre un’alternativa, e questa è la chiave del successo
elettorale degli islamisti. In Libia e soprattutto in Siria, i movimenti
spontanei hanno incontrato ostacoli più potenti e dato luogo a guerre civili,
che si sono trasformate in scontri interetnici arrestando la dinamica avviatasi
all’inizio del 2011.
Un tratto comune di
questi movimenti è dato dal fatto che essi non erano inquadrati da nessuna
organizzazione egemonica e che non avevano un orientamento ideologico
chiaramente definito. Le nuove generazioni che li animano non hanno riferimenti
politici. Esse non possono richiamarsi né al socialismo né al panarabismo,
ormai discreditati, e perché si battono contro regimi che spesso ne sono gli
eredi, dall’Egitto alla Libia. Esse non invocano più nemmeno l’islamismo, anche
se quest’ultimo ha tratto profitto sul piano elettorale dalle loro rivoluzioni.
Infine, esse sono molto lontane dal terzomondismo e dall’anticolonialismo,
nonostante la loro ostilità verso gli Stati Uniti e Israele, visto come il
rappresentante degli interessi del mondo occidentale in Medio Oriente. Nella
loro mancanza di prospettive, queste rivoluzioni sono dunque lo specchio di
questo inizio del secolo XXI, il cui profilo comincia appena a delinearsi.
Ma il confronto si pone tra il nuovo secolo e
quello trascorso. All’alba del Novecento, il futuro non era altrettanto incerto
in un mondo che subiva la catastrofe della Grande Guerra, disorientato dal
crollo della civiltà?
No, non credo che si
possa confrontare il nostro tempo con la svolta del Novecento, né con l’inizio
del secolo XIX. Quest’ultimo si apre con la Rivoluzione francese, che è stata
la matrice dell’idea di progresso e di socialismo. Il Novecento si apre con la
Grande Guerra, vale a dire il collasso dell’ordine europeo, ma la guerra dà
origine alla rivoluzione russa e alla nascita del comunismo, un’utopia armata
che proietta la sua ombra su tutto il secolo. Il comunismo ha conosciuto i suoi
momenti di gloria e i suoi momenti di abiezione, ma costituiva un’alternativa
al capitalismo. Il secolo XXI si apre con la caduta del comunismo. Se la storia
è una tensione dialettica tra il passato come “campo di esperienza” e il futuro
come “orizzonte di aspettativa”, secondo la formula di Reinhart Koselleck,
oggi, all’alba del secolo XXI, l’orizzonte di attesa sembra essere scomparso.
Ci sono stati altri periodi in cui non c’era un
orizzonte di aspettativa?
Forse all’inizio del
Medioevo, dopo la caduta dell’Impero Romano. O ancora, come ha dimostrato
Tzvetan Todorov, al momento della conquista del Messico, che ha alimento le
utopie dell’Occidente e prodotto la fine delle civiltà precolombiane. Ma queste
transizioni si sono prolungate nel tempo, non sono state improvvise come la
svolta del 1989. L’utopia nasce spesso con abiti antichi e si mostra sensibile
alla poesia del passato, come scriveva Marx, ma la situazione attuale, che
alcuni chiamano “presentista”, è diversa. I movimenti contestatari di oggi
oscillano tra Scilla e Cariddi, tra il rifiuto del passato e la mancanza di
futuro.
Possiamo dire che l’era della rivoluzione come
mezzo per cambiare il mondo scompare con il secolo XXI?
Il mondo non può vivere
senza utopie e ne inventerà di nuove. Quello che mi sembra certo è che non ci
saranno più rivoluzioni in nome del comunismo, almeno di quello del Novecento.
Quest’ultimo è stato prodotto da un’epoca di guerre, ha concepito la
rivoluzione secondo un paradigma militare, e quest’epoca è finita. Possiamo
formulare l’ipotesi che le future rivoluzioni non saranno comuniste, come
furono quelle del secolo scorso, ma rimarranno rivoluzioni anticapitaliste,
ossia si faranno per i beni comuni che bisogna salvare strappandoli alla
reificazione del mercato. Le rivoluzioni non si decretano, nascono da crisi
sociali e politiche, non sono il prodotto di nessuna “legge” della storia, di
nessuna causalità deterministica. S’inventano e il loro esito è sempre incerto.
Oggi, bisogna saper interiorizzare la sconfitta delle rivoluzioni del passato
senza per questo piegarsi all’ordine del presente. Non tutte le rivoluzioni
sono gioiose. Nella nostra epoca, sarei piuttosto incline a pensarle, con
Daniel Bensaïd, come una “scommessa malinconica”.
*(estratto dal libro-intervista uscito in Francia nel 2013 e in arrivo nelle librerie italiane in questi giorni per le edizioni ombre corte)