di
Claudio Conti
alcuni
spunti sul World Economic Forum di Davos (22-25 gennaio 2014), dove ogni anno
si danno appuntamento i potentati dell’economia e della
politica per pianificare le azioni della governamentalità, secondo lo spirito della
legge del mercato e dell’accumulazione capitalista
Davos
scorre senza che qui si presti molta attenzione a ciò che laggiù matura. È un
errore grave, naturalmente. Specialmente per chi, come la sinistra antagonista,
dovrebbe prestare ai contenuti dei vertici globali almeno altrettanta
attenzione a quanto si muove nelle strade che frequenta.
Vediamo
quindi cosa è venuto fuori dai primi giorni di seminari e “chiacchierate” tra i
“decisori” globali.
Intanto
la cosa più vicina a noi: l'Europa non ha affatto “svoltato l'angolo”. Eppure
era stata questa la certezza alla conclusione dell'appuntamento precedente, nel
gennaio 2013. Allora si veniva dalla “grande paura” dell'estate 2012, quando
chi partiva per le vacanze non era certo di trovare ancora l'euro – come moneta
anche “nazionale” - al proprio ritorno. Tutto sembrava risolto con la frase
pronunciata da Draghi in pieno agosto: “la Bce farà tutto ciò che è necessario;
e vi assicura che sarà abbastanza”.
“I
mercati” avevano capito subito e tradotto: “la Bce è pronta a fare da
prestatore di ultima istanza”. Ovvero a coprire con liquidità “illimitata”
eventuali voragini aperte da attacchi speculativi. Siccome il proverbio-totem
degli speculatori finanziari recita “mai scommettere contro le banche centrali”
(quelle potenti, almeno), sulla moneta unica era tornato a splendere il sereno.
Di
qui l'ottimismo di Davos 2013. Anche se tutti sapevano, anche lì dentro, che
prima o poi l'interrogativo sulla tenuta della costruzione europea sarebbe
tornato a far capolino. Solo, non pensavano che sarebbe tornato così in fretta.
Nessuna soluzione “strutturale” è stata né escogitata, né – tantomeno – messa
in pratica; o almeno avviata. E della “debolezza europea” l'Italia costituisce
da anni l'epicentro, con o senza governi “tecnici”. Anzi, proprio il “governo
politico” benedetto dalla Troika – Letta and Alfie – ha
compromesso la credibilità conquistata a colpi di massacro sociale da mr. Mario
Monti. La continuità nell'aggressione al mondo del lavoro e ai pensionati,
l'approfondimento della precarietà e l'incremento della disoccupazione non sono
stati accompagnati da un'analoga aggressività nei confronti della “spesa
clientelare”, dei mille rivoli parassitari, né dell'”economia sommersa o
illegale” che ormai rappresenta il 33,6% del prodotti interno lordo ma non paga
un euro di tasse. E quindi i conti pubblici italiani, nonostante i tagli vanno
male. Anzi, la crisi “tricolore” si è trasformata in recessione perenne,
vanificando in un attimo anche i sanguinosi “sacrifici” imposti ad una parte –
ampiamente maggioritaria, ma già troppo povera – del paese.
"L'Europa
è ancora impantanata", ha sentenziato Kenneth Rogoff, economista ad
Harvard ed ex capo economista del Fondo monetario internazionale. "Ci sono
stati dei successi politici non trascurabili", come la svolta sull'”unione
bancaria”. Ma in prospettiva l'Europa è ancora frenata da una popolazione che
invecchia, per tutelare la quale sta perdendo le giovani generazioni con una
disoccupazione "inaccettabile". La tesi è vecchia e soprattutto
falsa, come sappiamo. Ma viene ripetuta ad
libitum per dire che i governi nazionali debbono picchiare duro sul lavoro
dipendente ancora attivo, sulle pensioni e sui salari; devono “mettere per
strada” milioni di persone in modo da costringere chiunque ad accettare
qualsiasi lavoro per un qualsiasi (bassissimo) stipendio. Questa è la “via
della ripresa” disegnata dalla Troika (quindi anche dal Fmi, in cui gli Stati
Uniti hanno un grande peso): ripresa dei profitti, non certo dell'economia;
sicuramente non dei salari.
Gran
parte dei paesi del Vecchio Continente "sono ancora in recessione".
Hanno un problema "sistemico" con le banche che dovrebbe venir presto
alla luce con i test Bce (che ha da poco assunto i compiti della “vigilanza
bancaria”, in primo luogo sugli istituti di “dimensioni sistemiche”).
Soprattutto
prima o poi “l'Europa” dovrà fare i conti con "il sovraccarico di
debito" – sia pubblico che privato -
che potrebbe richiedere persino “ristrutturazioni” del debito stesso. Ovvero
perdite secche per azionisti, obbligazionisti, investitori e creditori. Senza
questa volta poter sperare in “aiuti di stato”, visto come sono stati ridotti i
conti pubblici grazie ai ripetuti salvataggi della banche.
Il
problema è serissimo perché anche un'altra grande economia globale si trova in
condizioni simili. Il Giappone, in deflazione da quindici anni e con
un'economica stagnante, promette una svolta sulle riforme: aumenti salariali, 'womenomics' con un ingresso massiccio delle donne nel
mondo del lavoro (da cui è prevista una spinta del 16% alla crescita), liberalizzazioni.
Con la promessa - fatta da Abe di fronte ai leader mondiali - di procedere
"come una punta di trapano" contro le resistenze interne alle
riforme. Fondamentalmente al costo del lavoro.
Anche
Martin Sorrell, amministratore delegato del colosso pubblicitario inglese WPP,
ha parlato di un'Italia che "rimbalza sul fondo", una Spagna in
ripresa ma con una disoccupazione enorme, il rischio di un mondo a due,
dominato da Cina e Usa. La sua ricetta, rendere flessibile il mercato del
lavoro, per superare la "tragedia" di una disoccupazione giovanile
che viaggia verso il 50%. Come si vede: tutti fanno la stessa analisi e danno
la stessa “soluzione”. Nessuno si accorge – fanno finta di non sapere – che
queste ricette sono state proposte attuate in modo selvaggio per almeno sei
anni; ma la situazione è peggiorata. Anche perché, se tutti fanno stessa cosa –
puntando a un modello di crescita “orientato alle esportazioni” - nessuno può
sperare seriamente di migliorare la situazione grazie a “differenziali” significativi.
In soldoni: se tutti voglio “esportare” e nessuno vuole “importare”, la tua
produzione “in crescita” te la sbatti in faccia...
"La
ripresa c'è – dicono i più ottimisti - ma non c'è nessun motivo per essere
eccitati". È infatti una ripresa debole, eterogenea e insufficiente per
abbassare la disoccupazione; quindi a far risalire la domanda “interna”.
"Potrebbero
riaffacciarsi rischi", avvertono i tedeschi. Uno sono le elezioni europee,
dove gli euroscettici potrebbero diventare una forza ragguardevole (una
conseguenza “indesiderata” ma ampiamente attesa proprio delle scelte imposte
dai “rigoristi” teutonici).
L'altro
è la revisione dei bilanci bancari da parte della Bce, che potrebbero accendere
tensioni (ovvero portare al fallimento di istituti di credito di grandi
dimensioni).
"I
rischi di una crisi imprevista nell'Eurozona sono diminuiti, ma i problemi
fondamentali restano in larga parte irrisolti", sintetizza infine Nouriel
Roubini. Ma non è l'unico pericolo alle porte. Robert Shiller, recente Nobel
per l'economia, lo indica con chiarezza: l'attuale corsa delle borse mondiali
"rischia di finire male". E riportarci al punto di partenza (al
2008-09), ma senza “le riserve” che allora sono state gettate nel fuoco della
crisi finanziaria.
Noi
che abitiamo le strade, guardando dalla finestra quel che matura, dovremmo
saperlo e muoverci di conseguenza.