di Dinamo Press
“Per riflettere sulla sostanza al di là di astiose polemiche” è il
sottotitolo del contributo della redazione di Dinamo Press, intervenendo sulla contrapposizione fra “vecchi”
e “post” operaisti, un confronto che pur toccando temi strategici sensibili difetterebbe
“di verifica empirica”, ovvero di quella metodologia di ricerca –l’inchiesta
militante- che proprio l’operaismo nel laboratorio dei “Quaderni Rossi” aveva
sperimentato
Il
volume Utopie letali. Capitalismo senza democrazia (Jaca Book,
Milano 2013) di Carlo Formenti, che abbiamo intervistato il 4 dicembre scorso
al termine della presentazione romana al Teatro Valle Occupato, è stato oggetto
di un vivace dibattito negli ambienti di movimento, in particolare in occasione
della recensione
a inizio anno di Benedetto Vecchi su il manifesto e della replica dell’autore, che andrebbero
integrate con l’analisi più simpatetica e attenta alla proposta di Infoaut e con
la recensione dello stesso
Formenti a Maurizio Lazzarato, Il governo dell'uomo
indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista (DeriveApprodi, Roma 2013).
I toni della polemica e ancor più dei commenti di terze parti possono a volta
apparire sovradeterminati da partiti presi ideologici, ma nella sostanza
indicano punti cruciali di difficoltà nell’elaborazione dello schieramento antagonista
e suggeriscono l’opportunità di una seria riflessione che vada al di là della
nostalgia, del rancore e altre passioni tristi.
La
recensione di Vecchi, per esempio, accusa Formenti di semplificazione, pur
riconoscendone lo statuto di forte e ambizioso programma antiliberista, e ne
denuncia il limite in un’interpretazione del capitalismo che punta più sulle
invarianti che sulle discontinuità, svalutando quindi le tematiche della Rete
(che pure Formenti aveva studiato da pioniere), del lavoro autonomo di seconda
generazione, della tradizione operaista del general intellect e
della politica della moltitudine –tutte schiacciate in una condanno
indiscriminata del post-moderno. Vecchi obbietta che le tecnologie digitali
sono macchine universali che sostituiscono non genericamente forza-lavoro bensì
processi cognitivi e dunque riducono il cervello a mezzo di produzione,
permeando tutti gli aspetti dell’organizzazione sociale, anche laddove sembrano
dilagare forme di lavoro tradizionali, fordiste o addirittura semi-schiaviste,
sul modello del boom industriale asiatico. Lungi dal sopravalutare le
possibilità cooperative ed emancipatorie della Rete, si tratta di coglierne la
centralità nel capitalismo contemporaneo, proprio in presenza dello
sfruttamento materiale di massa, della lotta di classe scatenata con il
neoliberismo finanziario dai padroni contro la classe operaia, in sintonia con
quanto mostrato dai recenti libri di Luciano Gallino. Il dissenso comincia
quando Formenti, in aspra polemica con il post-operaismo ovvero operaismo senza
operai, riduce la moltitudine a categoria sociologica tuttofare perdendone il
carattere costituente del lavoro vivo, perciò animatore del conflitto di
classe, e contrappone ai confusi movimenti libertari occidentali (e ai loro teorici)
gli scioperi cinesi e dei paesi emergenti, le lotte statunitensi ed europee
della logistica e del commercio come punto di partenza per una ripresa del
conflitto sociale. Cadremmo così in una rappresentazione statica dello sviluppo
capitalistico, in cui gli stessi problemi e gli stessi attori si
ripresenterebbero sulla scena dopo l’irritante parentesi post-moderna e
moltitudinaria. Invece, per Vecchi, anche nella nuova divisione internazionale
del lavoro la preda ambita da parte del capitale è il sapere sans phrase espresso dalla cooperazione
sociale, per innovare il processo lavorativo e il prodotto governando una
forza-lavoro reticolare e tendenzialmente precarizzata. La lotta di classe non
è scomparsa, giusto, ma non è più quella di prima: ciò propone nuove difficoltà
interpretative che un regresso ortodosso non ci aiuta a chiarificare.
Replica
Formenti, dichiarandosi d’accordo sulla combinazione di plusvalore relativo e
assoluto nella grande fabbrica della Cina e dei paesi emergenti e in generale sulla
macchina finanziaria globale che si appropria della cooperazione sociale, ma
accentuando ancor più la critica di metodo al post-operaismo, accusato di
immanentismo metafisico per il suo far immediatamente coincidere l’antagonismo
di classe con il rapporti di produzione post-fordisti. Questa sarebbe dovuto
sia a una sottovalutazione della spazialità (la concentrazione massiva dei
corpi messi al lavoro, della materialità della compresenza degli sfruttati a
prescindere dalle tecnologie) sia del fattore politico-organizzativo per
passare dalla classe in sé alla classe per sé. I post-operaisti continuano a
privilegiare, come negli anni ’70 e come Panzieri rimproverava ai “filosofi”
Tronti e Negri, la composizione tecnica come unico criterio di giudizio per misurare
le prospettive di ripresa, dunque per esempio a esaltare una centralità, per
nulla corroborata empiricamente, del cognitariato (ormai riassorbito dal
capitale o degradato a working poor) e a sostituire l’esodo alla
rivoluzione. Statici sono loro, che hanno abbandonato il discorso marxiano
sull’ontologia e la storicità dell’essere sociale per un’immersione nell’eterno
presente in cui periodicamente si annuncia la deflagrazione del capitalismo per
raggiunta maturità delle forze produttive e mortaretti etico-esistenziali.
Differenza senza ripetizione. Ciò che si articola nella dissoluzione della
classe, nell’invenzione di un glossario immaginario e armonioso di inediti
soggetti marginali del comunismo e, al limite, in un’ideologia del bene comunismo, un’ennesima rivoluzione
“passiva”. Per contro Formenti propone una ri-focalizzazione sull’idea di
partito come organizzazione antagonistica degli interessi di classe, adeguata
alle attuali condizioni di frantumazione delle soggettività, e la netta
consapevolezza che a rovesciare il capitalismo non saranno le richieste di
diritti e riconoscimenti identitari: non basta tornare a ragionare sul partito,
ma anche, con Gramsci, sul “farsi stato” delle classi subordinate e sulla loro
capacità egemonica.
Posizioni
e bandiere di proposte politiche contrapposte (spesso assai più gridate e
rozze), che toccano problemi strategici sensibili ma difettano di verifica
empirica, di “inchiesta” –per usare un termine archeologico, che attraversava
maoismo e «Quaderni rossi»–, dove quindi ortodossia e innovazione assumono un
aspetto sgradevolmente ideologico e unilaterale: tutte con qualche ragione e
molta tristezza risentita, dunque con perdita di potenza esplicativa e
operativa, tutte insufficientemente razionali, cioè articolati con la realtà
per trasformarla dall’interno. Appena un punto di partenza per decifrare il
presente e uscire dalla crisi dei movimenti dentro la catastrofe sociale ed
etica della società italiana.