di
Andrea Ligi
le differenze sociali con l’economia
globalizzata è aumentata anziché diminuire. Cresce sempre più il divario tra ricchi e poveri e lo
sfruttamento sistematico dei soggetti sociali. “In quelli che oggi sono i
centri nevralgici del nuovo mondo, si registrano altissimi livelli di
polarizzazione, precarizzazione e informalizzazione nel mercato del lavoro” (estratto
dal saggio Città globali. I nodi della rete del potere)
Le
città globali non sono soltanto in competizione l’una con l’altra: esse si
costituiscono come elementi di un unico sistema, di un’unica rete globale, che
è semmai in competizione con i rispettivi sistemi nazionali. Il risultato è la
parziale decostruzione delle vecchie gerarchie di scala impostate su misure
nazionali e la costituzione di nuove scalarità, in definitiva di un nuovo
ordine mondiale.
Va
rilevato, in questo senso, un cambiamento fondativo rispetto al sistema-mondo
capitalistico moderno e rispetto a quelle che Fernand Braudel ha definito supervilles:
le città-mondo sono esistite per secoli, forse per millenni; nella modernità i
centri finanziari dominanti si sono sempre estrinsecati in forma di imperi
legati a un territorio (le potenti città italiane, Amsterdam e Londra con i
rispettivi Stati). Seguendo Braudel, ciò creava una scala capitalistica
mondiale, con un preciso centro di potere che creava una gerarchia di rapporti
di forza basata sul rapporto centro-periferia, con moltissimi gradi intermedi.
Al termine della Prima Guerra Mondiale Londra abdicava a New York e, in un
mondo ormai definitivamente inquadrato in una geografia di Stati nazionali,
nascevano molti centri finanziari importanti per le varie nazioni del primo
mondo. Era questa una finanza inserita dentro le economie nazionali, spesso
costruita, per quanto riguardava i suoi centri, attorno alle fortune della
produzione industriale: si registrò, in specie dal secondo dopoguerra in
avanti, una fioritura di centri finanziari basati su economie di scala
prettamente regionale e dunque nazionale. In altri termini, le città si sono
sempre inserite in gerarchie di scala, dove dal locale si passa al regionale e
così via. Nel caso delle città mondo egemoni, queste hanno creato scale esse
stesse; mai tuttavia le reti di città hanno costituito spazi e ordini
multiscalari come accade nel mondo globale, nel quale le città più potenti si
staccano in definitiva dalla coazione territoriale imposta loro dagli Stati per
andare a creare una rete parzialmente – e in alcuni aspetti totalmente –
autonoma. Mai, inoltre, si è visto il centro decentrarsi e dislocarsi in aree
tra loro distanti migliaia di chilometri come accade oggi, laddove nella
modernità le relazioni di potere erano di stampo prettamente gerarchico, con un
centro egemonico, delle aree intermedie, e zone periferiche e subordinate, sia
geograficamente sia economicamente.
A
partire dagli anni Ottanta, la situazione inizia radicalmente a cambiare:
l’apertura delle economie nazionali agli investitori esteri e l’esplosione
delle innovazioni finanziarie accrescono la natura speculativa della finanza –
e iniziano a sostituire, in quanto fonte di capitale, i sistemi delle banche
commerciali nazionali maggiormente regolamentate – rafforzando la tendenza alla
concentrazione in un numero limitato di centri finanziari. Si entra nell’era
globale, che comporta, per le città sedi di centri finanziari, enorme
accentramento di risorse. A seguito di un’immediata concentrazione nelle città
di Londra, New York e Tokio, già a inizio anni Novanta è osservabile una forte
espansione: le attività finanziarie e i servizi alla produzione cominciano ad
addensarsi in luoghi specifici, ovvero nei centri finanziari delle città
globali dei rispettivi paesi: Parigi in Francia, Francoforte in Germania,
Milano in Italia, Toronto in Canada, e così via. Esiti simili si sono avuti nei
paesi in via di sviluppo. In ogni nazione la grande finanza tende così a
concentrarsi in un unico centro: si assiste, in un decennio, al declino di
centri finanziari importanti e spesso in crescita. È il caso tra gli altri di
Basilea, Montreal, Melbourne, Osaka, Lione, che hanno dovuto lasciare il
monopolio a Zurigo, Toronto, Sidney, Tokio, Parigi.
Nel
giro di vent’anni si è così costituita una geografia di città globali,
riconosciuta da un numero sempre maggiore di studiosi. L’iniziativa
probabilmente più importante nello studio della rete globale è quella avviata
da Peter J. Taylor all’interno del dipartimento di geografia della Loughborough
University: il progetto coordinato dal geografo inglese, GaWC (Globalization and World Cities), mira a
fornire, sin dalla seconda metà degli anni Novanta, delle mappature il più
esaustive possibile dei nodi del potere globale, concentrandosi sulla
produzione di questo potere. Lo stesso Taylor muoveva nel 1997 dall’idea
che le città globali fossero tra loro in una gerarchia di rapporti di forza, ma
obiettava alla comunità scientifica la scarsità di dati empirici tramite quali
poter delineare stime apprezzabili sui rapporti che legavano queste città. Taylor
avrebbe poi adottato un metodo differente, volto a tracciare una rete di città
tramite un approccio quantitativo e non più qualitativo riguardo la raccolta
dei dati, secondo l’idea che non sia tanto importante delineare una gerarchia
tra le città quanto che le stesse città abbiano rilevanza solamente in quanto
parti della rete (Taylor 2001, 2004). Parnreiter nota, probabilmente a
ragione, che il concentrarsi esclusivo sulle connessioni tra le città,
trascurando il grado di intensità di queste, non permette di problematizzare
adeguatamente i rapporti di forza che si instaurano nella rete urbana globale,
che risulta essere allo stesso tempo interconnessa e unitaria ma anche
gerarchica e generatrice di fortissime forme di competizione al proprio
interno.
Ciò
che si può ricavare dagli studi finora prodotti è certamente che l’economia
globale è già arrivata a un livello di intensità tale da avere bisogno della
rete delle città per sussistere, in una connessione sistemica che sembra
prevedere al proprio interno un modello gerarchico anomalo, nel quale nessun
centro è realmente autonomo. È questo un sistema nel quale vi è l’interesse ad
immettere sempre più centri e nel quale del resto i centri dominanti, allo
stesso tempo, consolidano posizioni di dominio. Si aggiungono allora nuovi motivi
che consentono l’accentuarsi della gerarchia all’interno della rete:
infrastrutture, risorse umane, informazioni, valutazioni e vendibilità dei
rischi, nuove tendenze globali, innovazioni, si concentrano, si ricercano e si
promuovono sempre di più in pochi centri, dai quali l’economia globale viene
controllata, venduta, arricchita. Ad esempio, per quanto la rete si espanda,
«la produzione dell’innovazione tende a rimanere concentrata nei centri leader,
che hanno non soltanto le competenze specialistiche ma anche l’influenza per
convincere gli investitori a comprare strumenti innovativi». La gestione del
rischio, ossia sostanzialmente la decisione sul punto fino al quale si può
speculare nel mondo della finanza, si accentra drammaticamente e per due
motivi: è più facile raccogliere informazioni e accordarsi in fretta riducendo
il margine d’errore; e allo stesso tempo viene sviluppata una politica di
potenza – e follia – volta a impostare l’economia globale secondo binari
prestabiliti. Da pochi centri si dettano insomma le linee guida per quantità
enormi di transazioni finanziarie – semplificando, si potrebbe dire tutte –: è
per questo motivo che il prezzo delle crisi finanziarie viene pagato a livello
globale. In pratica, gli errori si riverberano. In questa gerarchia anomala
nessun centro ha al momento un reale vantaggio nell’esercitare un’egemonia
sugli altri centri – se non per quanto riguarda una particolare
specializzazione –: alle performance offerte da una città,
sono necessarie quelle di un’altra, e non esiste la città globale perfetta,
autonoma. Inoltre, più la rete si espande, più ogni centro trae giovamento da
ciò. I centri che stanno ai livelli gradualmente inferiori della gerarchia
aprono all’economia globale le risorse delle nazioni in cui si trovano.
Gli
sviluppi in questa rete in espansione sono tutti a venire. Vi sono almeno due
centri finanziari – Londra e New York – che, per quanto in connessione
sistemica e in collaborazione con tutta la rete globale, si distinguono per la
potenza formidabile che esprimono: l’asse di forza tra queste due città – che
genera una centralità globale di produzione finanziaria e interscambio di
lavoratori d’alto profilo professionale, talvolta identificata con
l’espressione NYLON – è probabilmente il centro di gravità del sistema che si
delinea, spesso esteso alla zona dell’Atlantico del Nord; altre siti chiave per
l’economia globale in ritrovano in Cina, in Giappone, ancora in Asia
sud-orientale e in America Latina. Il centro di gravità situato nell’Atlantico
del Nord fissa un sistema di norme e standard per l’economia globale: la
geografia della globalizzazione ha un suo centro, che detta condizioni da
posizioni occidentali e in particolare dall’interno delle città globali dei
primi paesi del mondo. Lo stesso Taylor ha peraltro in anni recenti aperto a
nuove strade di ricerca lasciando priorità all’idea della centralità della
rete, ma concentrandosi allo stesso tempo sul ruolo di alcuni assi chiave –
intensivi – del mondo globale che poggiano su alcune delle città principali.
Questa lettura è utile a mostrare che il baricentro di questa geografia si sta
spostando, come volumi, verso il Pacifico – con Hong Kong, il polo
ultraliberale cinese, in prepotente ascesa a ridosso di Londra, New York e
Tokio – ma che allo stesso tempo quella che Taylor definisce intensive
globalization prende ancora le sue forme e sceglie le sue regole da
una prospettiva anglosassone. Se si segue questa lettura le prime otto città al
mondo risultano insomma essere Londra e sette centri statunitensi: in questo
senso il centro di gravità del sistema è effettivamente la zona dell’Atlantico
del Nord – i sistemi che si orientano al globale dall’Oriente e dal Sud America
fanno riferimento agli standard impartiti da questa area –. Un ruolo importante
nel definire questa geografia verrà giocato dagli sviluppi a cui sarà
sottoposta l’UE. I dati sull’Europa continentale mostrano una gerarchia che
fatica a definirsi, con Parigi che risulta sempre in testa e Francoforte che
del tutto verosimilmente si consoliderà come l’altro centro nevralgico.
La
realtà è insomma quella di una centralità istituzionalizzata dei centri globali
di maggiore peso, che dominano e si implementano su una rete globale in
continua espansione: proprio l’interdipendenza di questi centri e la necessità
dell’espansione della rete globale fanno preferire le interpretazioni che
tendono a escludere possibilità di egemonie statuali-territoriali, anche nella
forma duopolistica U.S.A.-Cina. Si può dire insomma che nelle città globali si
formano territori parzialmente slegati dalla territorialità nazionale, tramite
i quali l’economia globale fa il suo gioco, spesso aggirando il nazionale, ma
trovando in esso sede, appiglio, legittimità giuridica. La rete del globale –
con le città globali come nodi – sfonda, aggira, riempie di nuovi contenuti, la
scalarità univoca del nazionale: all’interno del territorio dello Stato nascono
nuovi territori, che si proiettano sul globale saltandovi direttamente a
partire da una scala economica locale, che però non si inserisce in quella
dello Stato – o perché è altamente deregolamentata o perché informale,
degradata, sfruttata (e perciò tantopiù costitutiva di questo tipo di economia
altamente competitiva, come cercheremo di mostrare meglio in seguito) –. In
ogni caso, il nazionale per come si era costruito nel corso del XX secolo, è
tagliato fuori. Il primo e inevitabile ponte che senz’altro viene fornito da
ogni Stato all’economia globale è quello di effettuare deregolamentazioni
dell’economia nazionale: l’accentramento verso un’unica città diviene
l’inevitabile conseguenza, per i benefici derivanti dall’agglomerazione. Il
prezzo d’accesso all’economia globale per gli Stati è però spesso alto: una
nazione perde controllo sui suoi capitali e la gran parte degli investitori che
realizzano guadagni possono benissimo essere esteri. Nella rete globale
iniziano così a circolare nuovi capitali a discapito di quanto rimane – tanto,
in termini quantitativi la maggior parte della realtà sociale, che ne paga il
prezzo – delle economie ancora locali, regionali, quindi nazionali: in questi
centri, tanto più dunque in quelli di paesi arretrati o in via di sviluppo, si
vede l’economia globale denazionalizzare il nazionale. Il
prezzo più alto da pagare, come al solito, è per i meno abbienti. Le città dei
paesi che via via si affacciano attivamente sull’economia globale, aprono ad
essa i capitali nazionali, che così fortifica continuamente la sinergia della
sua rete, senza che nello stesso tempo vi sia una connessione con la crescita
delle economie locali coinvolte. Gli investitori dell’economia globale sono o
esteri o comunque sganciati dall’economia nazionale. Gli Stati insomma si
slegano, almeno parzialmente, dalla loro dimensione nazionale, volgendosi a
politiche basate sull’efficienza economica. Perso il monopolio della sovranità
gli stati utilizzano il potere rimasto per favorire le forme più barbare di
capitalismo, abbandonando ovviamente gli individui – siano essi i cittadini
dell’ex stato sociale, o la nuova forza lavoro migrante e precaria –. Il danno
immediato che si produce è così la rottura del legame tra crescita e consumo
che aveva trovato nel secondo dopo guerra un fragile equilibrio – destinato del
resto a saturarsi immediatamente, per motivi sia economici sia politici –.
In altri termini, il capitalismo globale riesce a svincolarsi da ogni – pur
effimero – argine ad esso imposto dalla tarda modernità politica. Quella
attuale risulta essere un’economia fondata su discontinuità sistemiche, e che
ha tra i suoi postulati fondamentali il legame tra crescita e declino di alcuni
settori rispetto ad altri: nell’economia globale si creano circuiti discontinui
che tagliano fuori fette intere di economia locali e regionali per saltare
direttamente a quella globale, arricchendo una piccolissima parte – il
famigerato 1% – di quelli che vi partecipano, e sfruttando tutti gli altri –
sia coloro che sono direttamente coinvolti nei suoi circuiti, sia coloro che ne
sono esterni, poiché tutti pagano il prezzo delle nefandezze e delle crisi
globali –.