giovedì 23 gennaio 2014

La nuova ragione del mondo

di Pierre Dardot/Christian Laval

La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista”, titolo italiano del volume dei due autori transalpini (del quale proponiamo la lettura di due brevi stralci delle 512 pagine del libro), pubblicato di recente  da DeriveApprodi e che sarà presentato dagli stessi (animatori dal 2004 del gruppo di ricerca «Question Marx») il prossimo 20 febbraio nella Sala Zuccari del Senato, offre una ricostruzioni analitica del dominio neoliberista, la cui tragica razionalità ha permeato l’azione  della governamentalità economica e politica su scala globale

Dall’introduzione all’edizione italiana
Com’è possibile che nonostante le ripercussioni catastrofiche cui hanno portato le politiche neoliberiste, queste ultime siano sempre più attive, al punto da precipitare interi Stati e società in crisi politiche e regressioni sociali sempre peggiori? Com’è possibile che, negli ultimi trent’anni, queste stesse politiche si siano sviluppate e approfondite senza aver incontrato resistenze sufficienti a metterle in crisi?
La risposta non può ridursi ai semplici aspetti «negativi» delle politiche neoliberiste, ovvero alla distruzione programmata delle regolamentazioni e delle istituzioni.
Il neoliberismo non è semplice distruzione regolativa, istituzionale, giuridica, è almeno altrettanto produzione di un certo tipo di relazioni sociali, di forme di vita, di soggettività. Detto altrimenti, con il neoliberismo ciò che è in gioco è né più né meno la forma della nostra esistenza, cioè il modo in cui siamo portati a comportarci, a relazionarci agli altri e a noi stessi. Il neoliberismo definisce una precisa forma di vita nelle società occidentali e in quelle società che hanno scelto di seguire le prime sul cammino della cosiddetta “modernità”. Questa norma impone a ognuno di vivere in un universo di competizione generalizzata, prescrive alle popolazioni di scatenare le une contro le altre una guerra economica, organizza i rapporti sociali secondo un modello di mercato, arriva a trasformare perfino l’individuo, ormai esortato a concepire se stesso come un’impresa.
Da pressoché un terzo di secolo, questa norma esistenziale presiede alle politiche pubbliche, governa le relazioni economiche mondiali, trasforma la società e rimodella la soggettività. Le circostanze di un simile successo normativo sono state descritte di frequente. A volte privilegiando l’aspetto politico (la conquista del potere da parte delle forze neoliberiste), a volte quello economico (l’ascesa del capitalismo finanziario globalizzato), altre l’aspetto sociale (l’individualizzazione dei rapporti sociali a scapito delle forme di solidarietà collettiva, l’estrema polarizzazione tra ricchi e poveri), altre ancora quello soggettivo (la comparsa di una nuova tipologia di soggetto, lo sviluppo di nuove patologie psichiche). Si tratta di dimensioni complementari alla nuova ragione del mondo. Con questo dobbiamo intendere che siamo di fronte a una ragione globale nel duplice senso del termine: una ragione che di colpo diventa valida su scala mondiale e una ragione che, lungi dal limitarsi alla sfera economica, tende a totalizzare, cioè a “fare mondo”, con un proprio specifico potere di integrazione di tutte le dimensioni dell’esistenza umana. La ragione del mondo è anche, contemporaneamente, una «ragione-mondo».

Il soggetto plurale e la separazione delle sfere (dal cap. XIII del libro)
Da dove cominciare? Per molto tempo, il soggetto occidentale che chiamiamo «moderno» è stato sottoposto a regimi normativi e registri politici insieme eterogenei e conflittuali gli uni rispetto agli altri: la sfera del costume e della religione delle società del passato, la sfera della sovranità politica, la sfera degli scambi commerciali. Il soggetto occidentale viveva dunque in tre spazi diversi: quello delle occupazioni e delle credenze di una società ancora rurale e cristianizzata, quello degli Stati nazionali e della comunità politica, quello del mercato monetario del lavoro e della produzione. Tale ripartizione è stata fluida sin dall’inizio, e la posta in gioco dei rapporti di forza e delle strategie politiche consisteva proprio nel fissarne o modificarne le frontiere. Le grandi lotte che riguardavano la natura stessa del regime politico ne danno un’espressione curiosamente condensata. Più importanti, ma più difficili da af­ferrare, sono le progressive modificazioni dei rapporti umani, le trasformazioni delle pratiche quotidiane indotte dalla nuova economia, gli effetti soggettivi delle nuove relazioni sociali nello spazio commerciale e delle nuove relazioni politiche nello spazio della sovranità.
Le democrazie liberali sono state sistemi dalle tensioni molteplici e dalle spinte divergenti. Senza entrare in considerazioni che oltrepassano i nostri scopi, possiamo descriverle come regimi che permettevano e rispettavano entro certi limiti un funzionamento eterogeneo del soggetto, ovvero assicuravano al contempo la separazione e l’interconnessione delle diverse sfere della vita. Tale eterogeneità si manifestava nella relativa indipendenza delle istituzioni, delle regole, delle norme morali, religiose, politiche, economiche, estetiche e intellettuali. Ciò non significa che le caratteristiche di equilibrio e «tolleranza» esauriscano la natura del movimento che le ha animate. Due grandi spinte parallele sono coesistite: la democrazia politica e il capitalismo. Allora l’uomo moderno si è sdoppiato: il cittadino con i suoi diritti inalienabili e l’uomo economico guidato dall’interesse, l’uomo come fine e l’uomo come mezzo. La storia di questa «modernità» ha consacrato uno squilibrio verso il secondo polo. Se si volesse privilegiare lo sviluppo, anche se contrastato, della democrazia, come fanno certi autori*, si perderebbe di vista l’asse principale che, ciascuno a suo modo, Marx, Weber e Polanyi hanno messo in evidenza: lo spiegamento di una logica generale dei rapporti umani sottomessi alla regola del profitto massimale.
Non tralasceremo a questo punto tutte le modificazioni generate nel soggetto proprio a partire dallo stesso rapporto mercificato. Marx, insieme ad altri ma forse meglio di altri, ha evidenziato gli effetti dissolutivi del mercato sui legami umani. Con l’urbanizzazione, la mercificazione dei rapporti sociali è stata uno dei fattori più potenti dell’emancipazione dell’individuo dalle tradizioni, le radici, l’attaccamento familiare e le personali fedeltà. La grandezza di Marx è stata mostrare che tale libertà soggettiva veniva al prezzo di una nuova forma di assoggettamento alle leggi impersonali e incontrollabili della valorizzazione del capitale. L’individuo liberale poteva sì, come il soggetto di Locke proprietario di se stesso, credere di godere di tutte le sue facoltà naturali, dell’esercizio libero della ragione e della volontà, poteva sì proclamare al mondo la sua irriducibile autonomia: restava pur sempre un ingranaggio dei grandi meccanismi che l’economia classica aveva cominciato ad analizzare.
Questa mercificazione espansiva ha assunto nei rapporti umani la forma generale della contrattualizzazione. I contratti volontari impegnano persone libere: contratti pur sempre garantiti dagli organismi sovrani si sono così sostituiti alle forme istituzio­nali dell’alleanza e della filiazione e, più in generale, alle vecchie forme della reciprocità simbolica. Il contratto è divenuto più che mai il suggello di tutte le relazioni umane. Di modo che l’individuo ha sempre più sperimentato nel suo rapporto con gli altri la propria piena e intera libertà di impegno volontario, percependo la società come un insieme di rapporti associativi tra persone dotate di diritti sacrosanti. È questo il nocciolo di quello che chiamiamo «individualismo» moderno.
Si trattava, come spiega Durkheim, di una bizzarra illusione, dal momento che nel contratto c’è sempre qualcosa di più che il semplice contratto: senza lo Stato come garante, non esisterebbe alcuna libertà personale. Ma si può anche aggiungere, con Foucault, che dietro il contratto c’è sempre qualcosa di diverso dal contratto, o ancora che dietro la libertà soggettiva c’è sempre qualcosa di diverso dalla libertà soggettiva. È una concatenazione di processi di normalizzazione e di tecniche disciplinari che costituiscono quello che potremmo chiamare dispositivo d’efficienza. I soggetti non si sarebbero mai «convertiti» spontaneamente alla società industriale e commerciale con la sola propaganda del libero scambio, né con le sole attrattive dell’arricchimento personale. Si saranno dovuti ideare e applicare, «tramite una strategia senza stratega», i modelli di educazione dello spirito, di controllo del corpo, di organizzazione del lavoro, di abitazione, di riposo e di svago che erano la forma istituzionale del nuovo ideale dell’uomo, al contempo individuo calcolatore e lavoratore produttivo. È il dispositivo d’efficienza ad aver fornito alle attività economiche le «risorse umane» necessarie, ad aver prodotto senza sosta le anime e i corpi adatti a funzionare nel grande circuito della produzione e del consumo. In una parola, la nuova normatività delle società capitaliste si è imposta tramite una normalizzazione soggettiva di un tipo preciso.
Foucault ha fornito una prima cartografia, peraltro problematica, di questo processo. Il principio generale del dispositivo d’efficienza non è tanto, come è stato detto anche troppo, un «addestramento del corpo» quanto una «gestione delle menti». O forse bisognerebbe dire che l’azione disciplinare sul corpo è stata solo un momento e un aspetto del modellamento di una certa modalità di funzionamento soggettivo. Il Panopticon di Bentham è in effetti particolarmente emblematico di tale modellamento soggettivo. Il nuovo governo degli uomini penetra fino al loro pensiero, lo accompagna, lo orienta, lo stimola, lo educa. Il potere non è più soltanto volontà sovrana, ma, come dice giustamente Bentham, si fa «metodo obliquo» o «legislazione indiretta», destinata a pilotare gli interessi. Postulare la libertà di scelta, suscitarla, costituirla praticamente, presuppone che gli individui siano guidati come da una «mano invisibile» a fare le scelte che saranno proficue per ciascuno e per tutti. Sullo sfondo di questa rappresentazione non si trova tanto un grande ingegnere, sul modello dell’Orologiaio supremo, quanto una macchina idealmente autonoma che trova in ogni soggetto un ingranaggio pronto a soddisfare i bisogni della catena complessiva. Ma l’ingranaggio bisogna fabbricarlo e mantenerlo.
Il soggetto produttivo fu il capolavoro della società industriale. Il problema non era soltanto aumentare la produzione materiale, bisognava anche che il potere si ridefinisse come essenzialmente produttivo, come uno stimolatore della produzione i cui limiti sarebbero stati definiti solo dagli effetti della sua azione sulla produzione. Questo potere essenzialmente produttivo aveva per controparte il soggetto produttivo: non solo il lavoratore, ma il soggetto che in tutti i campi della sua esistenza produce benessere, piacere, felicità. Molo presto l’economia politica ha trovato corrispondenza in una psicologia scientifica che descriveva un’economia psichica a essa omogenea. Già dal XVIII secolo meccanica economica e psico-fisiologia delle sensazioni si pro­mettono amore eterno. È questo senza dubbio l’incrocio definitivo che disegnerà la nuova economia dell’uomo governato dai piaceri e dai dolori. Governato e governabile dalle sensazioni: l’individuo considerato nella sua libertà è un irriducibile briccone, un «delinquente potenziale», un essere mosso prima di tutto dal proprio interesse. La nuova politica si inaugura con il monumento panottico innalzato alla gloria della sorveglianza di ciascuno da parte di tutti e di tutti da parte di ciascuno.
Ma perché, domanderà forse qualcuno, sorvegliare i soggetti e massimizzare il potere? La risposta veniva da sé: per la produzione della massima felicità. Intensificazione degli sforzi e dei risultati, minimizzazione delle spese inutili, è questa la legge dell’efficienza. Fabbricare uomini utili, docili nel lavoro, inclini al consumo, fabbricare l’uomo efficiente, ecco cosa si delinea, eccome, già dall’opera di Bentham. Ma l’utilitarismo classico, a dispetto del suo formidabile lavoro di demolizione delle vecchie categorie, non è venuto a capo della pluralità interna al soggetto** come della separazione delle sfere cui corrispondeva tale pluralità. Il principio di utilità, la cui vocazione omogeneizzante era esplicita, non è riuscito ad assorbire tutti i discorsi e tutte le istituzioni, proprio come l’equivalente generale della moneta non è riuscito a introdursi in tutte le attività sociali. È proprio il carattere plurale del soggetto e la separazione delle sfere pratiche a essere oggi in questione.

Per completezza riportiamo le note del testo:
*[2] Cfr. supra la discussione del punto di vista di Marcel Gauchet nel capitolo 5
**[3]  Come si è visto più sopra (infra, capitolo 3, in particolare la nota 92), il pensiero di John Locke non trascura la differenziazione del soggetto in soggetto d’interesse, soggetto giuridico, soggetto religioso, ecc. A suo modo, l’influenza persistente di quest’idea, a dispetto dell’egemonia dell’utilitarismo, testimonia di una certa forma di resistenza alla sussunzione del soggetto sotto il regime esclusivo dell’interesse.