di
Costanza Margiotta
Il
Belgio e altri Stati entrano in “Guerra” contro il diritto dei cittadini
europei a risiedere liberamente nel territorio dell’Unione Europea
1.
Il nome di Silvia Guerra è fra quelli destinati a rimanere
celebri per gli studi e le pratiche relativi alla cittadinanza europea. Più di
un quarantennio fa un’altra cittadina italiana – portava anch’ella il cognome Guerra –
aveva dato il nome all’intestazione di una delle prime sentenze della Corte di
giustizia europea (C-6/67) che ad oggetto avevano la libera circolazione dei
lavoratori dei paesi membri dell’allora Comunità Economica Europea e il loro
diritto alla non discriminazione in base alla nazionalità in materia di
“vantaggi sociali”. Agli esordi delle Comunità Europee l’abolizione delle
discriminazioni in materia economico-sociale è stata opera soprattutto dei
lavoratori migranti. Non è un caso che le intestazioni delle prime sentenze
della Corte di Giustizia europea in materia di discriminazione in virtù della
nazionalità riportino cognomi italiani, a dimostrazione del ruolo
dell’emigrazione italiana nella storia della rivendicazione dei diritti
connessi alla libertà di movimento nei primi anni di vita della CEE. A distanza
di circa mezzo secolo dai primi passi mossi in forma embrionale dalla
cittadinanza europea (istituita poi nel 1992 con il Trattato di Maastricht), i
profili di questo istituto sembravano ormai riguardare solo in minima parte i
cittadini degli Stati membri: i ricorrenti oggetto delle ultime pronunce sul
rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia europea erano principalmente
cittadini provenienti da Stati non europei.
Dovrebbe
risultare non comune allora la storia di Silvia Guerra, cittadina italiana, e
quindi europea, espulsa a metà dicembre dal Belgio perché considerata “un peso
indebito” per lo Stato sociale belga: siamo ormai abituati, nello spazio
europeo, ad associare le espulsioni a immigrati non comunitari. Storie simili a
quelle della Guerra accadono ogni giorno in Belgio come altrove, senza far
rumore, a migranti provenienti da paesi extra-comunitari.
A
meno di non prendere definitivamente atto che le lotte per i diritti possono e
si devono muovere sul terreno della cittadinanza europea, la storia
dell’italiana in Belgio rischia di non rimanere un caso isolato, ma anzi di
diventare la norma(lità) per chi non dimostri di avere un reddito sufficiente
al sostentamento proprio e della eventuale famiglia.
Perché
la cittadinanza europea, e il caso Guerra in particolare, iniziano a guadagnare
l’attenzione della stampa mainstream italiana? Cosa stupisce
dell’espulsione della Guerra dal Belgio (ma nel corso del 2013 sono stati circa
2500 i cittadini europei espulsi dal Belgio perché “economicamente non
indipendenti”)? La risposta è a prima vista semplice: la messa in
discussione del progetto di integrazione europea da parte dei suoi stessi
fondatori. In più ciò che deve avere richiamato l’attenzione della nostra
stampa è il termine espulsione associato a quello di una
cittadina italiana: sicuramente fa paura che sia una cittadina europea occidentale la
persona espulsa da uno Stato membro dell’UE e per di più da chi è percepito
come simile a lei, altri cittadini europei occidentali. Preoccupa perché
è qualcosa che sentiamo vicino, che potrebbe succedere a chiunque abbia già
esercitato il diritto di, o stia per, circolare liberamente nello spazio
europeo: precario, disoccupato o semplicemente mosso dal desiderio di muoversi
sfruttando quelle che sino a ieri erano le opportunità che la cittadinanza
europea sembrava offrire.
Sta
di fatto che grazie alla storia di Silvia Guerra siamo venuti a conoscenza dei
passi indietro che rischia di fare il giovane istituto della cittadinanza
europea per gli stessi cittadini degli Stati membri dell’Unione Europea
“occidentale”.
Non
solo il Belgio si sta attrezzando per dare un giro di vite all’erogazione di
servizi di welfare per i cittadini comunitari, ma lo stesso
Cameron in Gran Bretagna tenta di tutelare le prestazioni sociali da “eventuali
abusi” da parte dei cittadini comunitari. Londra, Parigi, Bruxelles e Berlino
tentano di allinearsi nel ri-chiudere i confini intraeuropei, affermando che la
libertà di movimento non deve più essere considerata un principio assoluto da
associare alla cittadinanza europea, sebbene sia basilare. L’idea è quella di
tornare a una cittadinanza basata sul reddito, permettendo la circolazione solo
a chi dichiara un reddito vicino a quello medio europeo e sia in grado di
mantenersi.
In
un contesto in cui – visti gli effetti della crisi – sta cambiando radicalmente
la composizione, la scala e il significato dei flussi migratori interni allo
spazio europeo, le prime espulsioni di cittadini europei occidentali, al di là
delle ripercussioni immediate sui singoli individui, configurano un dispositivo
di governo differenziale dei migranti comunitari che non può non avere riflessi
sull’insieme dei migranti che attraversano lo spazio europeo. In altre parole,
pratiche di governo, che istituzionalizzano nei fatti una cittadinanza
differenziale fra gli stessi cittadini dell’Ue, contribuiscono ad accrescere il
più generale quadro di precarizzazione della vita e del lavoro, confermando
nella loro condizione di subordinazione dei migranti nella loro complessità.
L’Europa
tornerebbe a essere uno spazio di libertà per i capitali, le multinazionali, le
merci, i servizi, i ricchi ma non più per quei soggetti che spaventano: i
lavoratori precari, i disoccupati, i migranti comunitari tout court o
i migranti extraeuropei. Di fronte ai numeri delle migrazioni intraeuropee (nel
2013 i cittadini europei residenti in uno Stato membro diverso dal proprio sono
quasi 14 milioni; solo in Gran Bretagna gli italiani sono mezzo milione e
l’Ambasciata italiana si è vista costretta ad aprire uno sportello “Primo
approdo” per i nuovi arrivi) che crescono ogni giorno – visti gli sviluppi
della crisi economica in alcuni Stati dell’Unione e la fine (fissata legalmente
all’inizio del 2014) del periodo transitorio durante il quale i cittadini di
Bulgaria e Romania hanno subito una serie di restrizioni all’esercizio del
diritto di libera circolazione –, alcuni Stati europei stanno adottando una
serie di provvedimenti “anti-europeisti”. Nel proclamato “Anno europeo dei
cittadini”, il 2013, i governi di Germania, Austria, Gran Bretagna e Olanda
hanno proposto, con una richiesta formale a Bruxelles, che fossero modificate
le norme in materia di libera circolazione e di accesso al welfare per
i cittadini europei. Malgrado non sia in atto nessuna “aggressione” ai sistemi
sociali di tali Stati da parte di cittadini comunitari alla ricerca di un
migliore welfare, questi Stati stanno facendo pressione sull’Unione
Europea affinché vengano ristabiliti i tradizionali confini per proteggere “i
diritti e gli interessi dei nativi”.
Si
tratta di una presa di posizione – come quella recentissima di Germania e
Gran Bretagna che vogliono porre “nuove” restrizioni alla libera circolazione
dei cittadini romeni e bulgari che invece, dal primo gennaio, avrebbero finalmente potuto
esercitare anche loro, come il resto dei cittadini europei, il diritto alla
libera circolazione – che snatura radicalmente la cittadinanza europea, nella
misura in cui storicamente, fino ad ora, essa ha fatto sentire i suoi effetti
essenzialmente nell’ambito di ordinamenti diversi da quello di provenienza,
parificando il cittadino europeo ai nativi nel godimento dei diritti sociali ed
economici (e civili).
Ora,
invece, si va in direzione contraria: nel timore di un, ancora ipotetico e non
verificato, “turismo sociale”, si reintroducono discriminazioni su base
nazionale.
Lo
spettro di “scansafatiche” interessati al godimento dei benefici sociali degli
Stati ricchi sta avendo forti ricadute sulle decisioni governative in materia
di flussi migratori intraeuropei. Va comunque considerato che non è la prima
volta che viene indebolito il concetto di cittadinanza europea e messo un freno
al suo eventuale sviluppo verso l’autonomia, solo che ora ci stupisce e attira
l’attenzione perché riguarda i cittadini provenienti dai paesi occidentali dell’UE:
italiani, spagnoli, portoghesi, greci, ovvero i cittadini provenienti dalle
nazioni più colpite dalla crisi dell’eurozona. “Pigs here” ha titolato per
l’appunto il quotidiano britannico Sun che suona come in
Inghilterra “sono arrivati i maiali”: a dimostrazione, fra l’altro e se ce ne
fosse bisogno, che il razzismo cambia continuamente forma, contorni, impatto,
in base ai cambiamenti politici ed economici.
Non
è la prima volta, si è detto: già in occasione degli ultimi allargamenti
dell’Unione verso l’Europa centrale e orientale (2004, 2007 e 2013), infatti,
era stato previsto un “periodo di transizione” (da due a sette anni) in cui per
i cittadini dei nuovi Stati membri era stata sospesa l’applicazione del
contenuto più rilevante e significativo della cittadinanza europea, cioè la
libertà di circolazione. In sostanza, all’atto di adesione ai “vecchi” Stati
membri non è stato imposto l’obbligo di accettare le conseguenze
dell’automatica estensione della cittadinanza europea ai cittadini dei “nuovi”
Stati membri: libertà di circolazione e di soggiorno per i nuovi cittadini in
tutta l’UE. Ciò ha avuto gravi conseguenze dirette sul concetto di cittadinanza
europea: i “migranti” dai nuovi Paesi membri, pur essendo cittadini europei a
tutti gli effetti (con relativo diritto di voto alle elezioni europee) sono
stati trattati a lungo (e ciò sembra valere ancora appunto per i romeni, i
bulgari e i croati) come extracomunitari dai meccanismi di controllo delle
migrazioni in essere negli Stati membri. Temendo la destabilizzazione dei
mercati del lavoro nei “vecchi” Stati con l’arrivo dei “nuovi” migranti, si è
invocata la clausola limitativa dell’articolo del Trattato sul diritto di
libera circolazione e soggiorno, sancendo, per la prima volta, la
stratificazione e la gerarchizzazione dei diritti all’interno dello status di
cittadino europeo. In questo modo si è posta una significativa ipoteca sulla
prospettiva di un’autonoma cittadinanza europea: se la libertà di movimento è
il primo tra i diritti che discendono dal nuovo status, le scelte
politiche fatte in occasione degli ultimi allargamenti hanno seriamente messo
in crisi la forza e la coerenza del progetto. Infatti, le diverse situazioni
soggettive scompongono continuamente l’unità della cittadinanza e finiscono per
conferire a quella europea forme a geometria variabile che segnano gradi
diversi di inclusione, distruggendo l’unificazione del soggetto di diritto
faticosamente realizzata.
Le
recenti scelte politiche di alcuni Stati europei, che riguardano oggi non più
solo la libertà di circolazione e soggiorno dei cittadini degli ultimi Stati
entrati a far parte dell’Unione, stanno tentando di modificare la direzione che
aveva preso il processo di autonomizzazione della cittadinanza europea dalle
cittadinanze nazionali.
A
questi rischi che il sorgere di politiche squisitamente sovraniste pongono al
processo di giuridificazione della cittadinanza europea, si potrebbero
aggiungere anche conflitti (o comunque processi di “sconnessione”) tra gli
stessi poteri europei, con particolare riferimento a quello giudiziario, visto
sia la fragilità dell’integrazione attraverso il diritto in questo momento, sia
il ruolo costituente che su questa materia ha esercitato negli anni passati la
Corte di Giustizia europea.
A
meno di non voler intendere che lo scontro si gioca tutto sul terreno europeo,
è necessario allora provare a capire i punti di impasse di questo processo per
immaginare nuovi contenuti e direzioni per la cittadinanza europea affinché
retoriche di ritorno alle cittadinanze nazionali non abbiano “cittadinanza”.
2.
A oggi credo si possa affermare che, nel caso in cui venisse bocciato il
ricorso fatto alle autorità belghe competenti relativamente al decreto di
espulsione dal Belgio, Silvia Guerra avrebbe comunque delle chance di far
valere i suoi diritti con un nuovo ricorso che faccia riferimento alla
giurisprudenza della Corte di Giustizia europea, che, come è noto, ha svolto un
ruolo che può essere definito, in questa materia, costituente. È a
questa giurisprudenza che bisogna fare, infatti, riferimento per capire,
nonostante le passate e recenti scelte conservatrici delle istituzioni
politiche europee, a che punto è il processo europeo di istituzionalizzazione
della cittadinanza.
È
vero che il paventato pericolo di forme di “turismo sociale” indusse, a
Maastricht, a evitare il riconoscimento di un “incondizionato” diritto di
libera circolazione e di soggiorno per tutti i cittadini europei. Inizialmente,
il riconoscimento del diritto di circolare e soggiornare nel territorio degli
Stati membri sulla base del solo presupposto della cittadinanza non fu,
infatti, considerato norma dotata di effetto diretto, e come tale invocabile di
fronte ai giudici nazionali, perché tale diritto non era formulato in termini
assoluti ma “fatte salve le limitazioni e le condizioni previste dal presente
trattato e dalle disposizioni adottate in applicazione dello stesso”. In
effetti nel Trattato di Maastricht la libertà di circolazione e di soggiorno
per i cittadini europei non prescindeva ancora completamente da qualsivoglia
profilo economico, cioè dalla connessione con lo svolgimento di un’attività
lavorativa o, per i cosiddetti inattivi, dall’assicurazione che la loro
presenza non sarebbe diventata un onere per le finanze dello Stato ospitante.
La
Corte, invece, ha svincolato lentamente il diritto di libera circolazione e di
soggiorno, spettante al solo cittadino europeo “economicamente
indipendente” – che disponga cioè di risorse sufficienti e di un’assicurazione
medica –, dai riferimenti di ordine economico, elevando tale diritto a
categoria inerente allo status di cittadino europeo in quanto
tale e facendo sì che il lavoro salariato stabile non restasse la principale
modalità di accesso alla circolazione nello spazio europeo.
Secondo
la Corte aver riconosciuto il diritto a muoversi liberamente nel territorio
dell’UE in un’unica disposizione relativa ai diritti dei cittadini europei e
non più dei cittadini degli Stati membri a vario titolo considerati
(lavoratori, prestatori di servizi, familiari, studenti, pensionati, ecc.) ha
fatto acquisire a tale diritto una valenza nuova, non più strettamente
economica ma politica, perché non è più rilevante il motivo per cui un
cittadino decide di avvalersi della libertà di circolazione a parte il suo
nuovo status giuridico. La ratio del nuovo
statuto non può più, quindi, venir “mortificata in logiche di bilancio”, degne
di tutela ma che non devono più prevalere sui diritti del cittadino. La
subordinazione dell’esercizio del diritto di soggiorno dei cittadini europei
agli interessi (economici) degli Stati membri deve, infatti, rispettare il
principio di ragionevolezza e di proporzionalità, altrimenti si può dare
lesione dei diritti di cittadinanza europea. Secondo la Corte può pure essere illegittimo
imporre a uno Stato ospitante un “onore eccessivo” per le sue
finanze pubbliche, ma questo non può valere sempre, e non certo “un mero onere”
(Grzelcyzyk C-184/99 del 2001). In altre parole, fermo restando la
legittimità di salvaguardare le finanze pubbliche degli Stati, per la Corte
rendere efficace uno dei principi fondamentali della Comunità, la libera
circolazione delle persone, significava ritenere accettabili degli
oneri ragionevoli.
La
Corte ha precisato che è necessario verificare, di volta in volta, tenendo
conto delle situazioni personali, la legittimità del criterio che uno Stato
adotta per escludere dei “cittadini europei” dalla parità di trattamento
(sussidi o benefici sociali: prestazioni di assistenza sociale, sussidi agli
studenti, benefici di disoccupazione ecc.). Essa ha anche ammesso (Grzelczyk C-184/99)
che l’esistenza di un minimo di “solidarietà finanziaria” transnazionale tra
gli Stati membri, necessaria al processo di integrazione europea, fa sì che uno
Stato ospitante non possa negare sulla sola base della nazionalità una
prestazione sociale al cittadino straniero legittimamente residente.
Per
riassumere: dall’istituzionalizzazione della cittadinanza europea non deriva,
almeno negli ultimi dieci anni (2002-2012), un diritto “incondizionato” di
soggiorno e di parità di trattamento per tutti, a causa del divieto di
pretendere dagli Stati ospitanti oneri non ragionevoli per garantire assistenza
sociale ai cittadini comunitari. Ma gli Stati membri, proprio a causa
dell’istituzionalizzazione della cittadinanza europea, sono costretti a
giustificare le misure discriminatorie che adottano nei confronti dei cittadini
europei.
Non
a caso con un’altra pronuncia in materia di cittadinanza la Corte ha stabilito
il principio secondo cui un cittadino europeo, qualsiasi siano le sue risorse
economiche, “durante il suo soggiorno lecito” (Trojani C-456/02 del
2004), “non può non fruire del principio fondamentale relativo alla parità di
trattamento”. Il “potere di allontanamento” di uno Stato, “al di fuori delle
decisioni fondate sull’ordine, sulla sicurezza e sulla sanità pubbliche” – che
senz’altro restano domini riservati non da poco –, è condizionato, perché
spetta al cittadino dell’Unione il diritto di contestare l’allontanamento in
quanto la libertà di circolazione e di soggiorno non può
essere limitata da disposizioni nazionali che condizionino il soggiorno
all’accertamento dell’indipendenza economica.
Perciò
giuridicamente appare illecito l’allontanamento dal Belgio di Silvia Guerra,
che è residente legalmente in Belgio dal 2010 e dal 2012 ha un contratto
chiamato “articolo 60” che, più che un vero e proprio aiuto sociale, è un
contratto di re-inserzione nel mondo del lavoro, erogato in parte dal CPAS
(Centro pubblico di azione sociale) e in parte dal servizio a cui è “prestato”
il contrattualizzato CPAS, perché difficilmente, alla luce di quanto appena
detto, l’”Articolo 60” può essere considerato, tenendo conto del caso
specifico, un onere irragionevole per lo Stato sociale belga.
3.
Nonostante la sorte, ci auguriamo felice, della Guerra la questione è se la
tenuta dei sistemi nazionali di welfare possa restare il
limite invalicabile alla liberalizzazione totale della circolazione e del
soggiorno per tutti i cittadini europei. L’estensione dei beneficiari di tali
libertà, dovuta al riconoscimento della cittadinanza europea, ha certamente
determinato la “de-nazionalizzazione” della cittadinanza sociale, ma non ha
comportato la cosiddetta “europeizzazione” della stessa. Questo anche perché il
processo di de-nazionalizzazione della cittadinanza sociale si è esaurito
proprio nel momento in cui il carattere sociale della cittadinanza in Europa è
entrato definitivamente in crisi. Se a metà del secolo scorso nelle democrazie
europee la platea dei cittadini dovette necessariamente allargarsi per
includere i lavoratori, con l’istituzionalizzazione della cittadinanza europea
i diritti comunitari, che erano collegati allostatus di lavoratore
dal 1957, devono necessariamente essere estesi anche al cittadino tout
court.
Bisogna
allora e innanzitutto ripensare il soggetto su cui è stata disegnata la
cittadinanza europea. Il progetto di cittadinanza europea (così come le
cittadinanze nazionali europee del secondo dopoguerra), infatti, è ancora
imperniato sull’individuo maschio, bianco, lavoratore salariato a tempo
indeterminato. Quella figura appare ormai inattuale e sarebbe inutile
riproporre la ridefinizione dei sistemi di diritti e di welfare, a
livello europeo, secondo questo modello. La crisi del capitalismo
contemporaneo, la precarizzazione del lavoro, le soggettività emergenti da
quella che può essere definita una nuova generazione europea “mobile”, i
cambiamenti delle caratteristiche delle migrazioni, le trasformazioni delle
strutture familiari e dei rapporti fra i generi impongono di avviare in Europa,
già culla dello Stato sociale tradizionale, un progetto di nuovo welfare per
l’affermazione dei diritti sociali che vadano oltre quelli pensati sulla figura
del lavoratore tradizionale. Ma questo può avvenire solo legittimando
definitivamente l’accesso transfrontaliero a tali diritti per i soggetti
economicamente inattivi, delegittimando di conseguenza la portata limitativa
della condizione di “autosufficienza economica”. Si deve, in poche parole,
riconoscere un diritto incondizionato di circolare e
soggiornare sul territorio dell’Unione (le caratteristiche fondamentali della
cittadinanza europea) per chiunque sia titolare dello status di
cittadino europeo. Potranno così essere pensate e create ex novo istituzioni
in grado di riconoscere e di implementare i diritti anche per quei soggetti
oggi temuti, quali i lavoratori precari, i disoccupati o i migranti
extraeuropei.
Tuttavia
l’attuale atteggiamento di alcuni Stati membri dell’UE va esattamente in direzione
opposta, così che, di fronte all’odierna profonda e generale crisi economica,
sono i fondamenti stessi dell’Unione a diventare incerti: la solidarietà fra
gli Stati vacilla e questo rischia di privare la cittadinanza e il progetto
europei di ogni significato.
La
questione da porsi è se, nell’attuale situazione, ci si possa aspettare un
rilancio dell’Unione da parte delle istituzioni esistenti (e in tal caso, da
quali) o se il progetto di Europa non debba invece nutrirsi anche di un’azione
dal basso. Quest’ultima prospettiva è allo stato attuale l’unica interessante,
specie considerando che il lavoro della Corte di giustizia europea ha sempre
risentito del clima e degli orientamenti sociali e politici in cui sviluppa la
sua azione.
Agli
occhi della maggioranza della popolazione europea, e in particolare dei
cittadini dei paesi maggiormente colpiti dalla crisi economica, l’Europa,
infatti, sta finendo per essere identificata solo con le politiche di austerity,
che stanno determinando lo smantellamento sistematico dei diritti sociali e un
loro livellamento verso il basso. In tale contesto la cittadinanza assume un
carattere “punitivo” più che di emancipazione. Al contrario, la difesa e la
rivendicazione dei diritti dei cittadini devono essere promosse a livello
europeo: la dimensione europea è, infatti, il limite contro il quale si
infrange qualsiasi battaglia, intrapresa a livello nazionale, per i diritti
fondamentali e contro la gestione (catastrofica) della crisi. A fronte di una
cabina di regia europea, retoriche, mobilitazioni e politiche di rivendicazioni
dei diritti che si muovono su scala nazionale hanno poco senso, perché i poteri
di decisione che influiscono sui diritti individuali e sulle relazioni sociali
agiscono a livello comunitario. In questo senso, appare indispensabile porsi
sullo stesso livello di questi dispositivi decisionali costruendo
(contro)dispositivi politici capaci, anzitutto, di farsi carico della
eterogeneità delle condizioni socio-economiche e, in secondo luogo, di
promuovere un progetto mirante a produrre un linguaggio comune, capace di
mettere al centro proprio il paradigma della cittadinanza europea
Sta
ora a noi divenire cittadini europei. Il destino della cittadinanza europea non
è ancora scritto, dobbiamo dimostrare di sapere costruire una cittadinanza
comune e autonoma che trascenda i confini per attingere all’universale. Se il
futuro è ancora incerto, solo assumendo tale istituto come azione, come pratica
di soggettivazione, è possibile mettere in discussione la cittadinanza europea
come status, contestandone sia il carattere di esclusione sia
quello di “inclusività differenziata”, non cadendo nella falsa alternativa fra
l’Europa com’è e i populismi che la rifiutano.