Si mettano l’anima in pace quanti vedono nella scalata alla
Chrysler un volano per il rilancio della produzione automobilistica in Italia.
Gli stabilimenti nostrani continueranno a barcamenarsi tra ridimensionamenti,
licenziamenti e cassa integrazione
Nei
primi giorni del 2014 le prime pagine di tutti i giornali italiani e
internazionali hanno riportato a grandi titoli la notizia dell’acquisizione del
100% di Chrysler da parte di Fiat. Un’azienda italiana, anzi l’Azienda italiana
con la A che ingoia un colosso (sebbene in rovina) statunitense è una notizia
che fa impressione. “Un’operazione che entrerà nei libri di storia”, “un
sogno realizzato” secondo Marchionne e Elkann; Susanna Camusso parla
di operazione di grande rilevanza; Bonanni e Angeletti si fanno prendere
addirittura dall’entusiasmo più sfrenato, il primo rivendicando una parte del
merito (senza un sindacato responsabile in Italia, Fiat non avrebbe avuto la
forza di proiettarsi sul mercato globale) e entrambi dicendosi certi che
l’acquisizione darà nuovo slancio e garantirà posti di lavoro anche in Italia.
Ai tre compari deve essere sfuggito, tra le altre cose, il licenziamento - a partire
dal primo gennaio - di 174
operai della Lear e della Clerprem, aziende che lavoravano con le commesse
dello stabilimento Fiat di Termini Imerese, o gli
esuberi in GKN di Campi Bisenzio azienda in cui l'80% delle commesse
dipende da Fiat.
Qualche analista da salotto televisivo si è mostrato invece più tiepido, temendo che lo spostamento del baricentro Fiat negli Stati Uniti potrà segnare il definitivo disinteresse per le sorti degli stabilimenti e degli operai italiani e invocando quindi garanzie d’investimento e di rilancio.
Qualche analista da salotto televisivo si è mostrato invece più tiepido, temendo che lo spostamento del baricentro Fiat negli Stati Uniti potrà segnare il definitivo disinteresse per le sorti degli stabilimenti e degli operai italiani e invocando quindi garanzie d’investimento e di rilancio.
A
noi, lo ripetiamo, sembra che tutta questa manovra abbia ben
poco a che fare con le politiche industriali, con l’innovazione tecnologica,
con il lancio di nuovi modelli, con la conquista di nuove fette del mercato
automobilistico. Ci pare piuttosto che si tratti di un’operazione tutta
finanziaria, che culminerà con la quotazione delle azioni a Wall Street. E
così, mentre ci si interroga sulla fine che faranno Pomigliano e Mirafiori,
Melfi e Cassino, Marchionne sembra avere le idee molto più chiare. A lui le
automobili non interessano. A lui interessano i soldi. E ora il modo migliore
per far soldi, dopo aver spremuto all’inverosimile i lavoratori italiani e aver
scritto un capitolo tutto nuovo sulle relazioni industriali e sindacali in
questo Paese, è arrivare alla quotazione nel mercato borsistico americano.
Come arriveranno questi soldi? Dato che si arriverà all’IPO (Initial Public Offering) e cioè alla quotazione in borsa in una fase di estremo benessere del mercato, si innescherà una corsa all’acquisto e una spirale speculativa che porterà alla supervalutazione del titolo. Sarà questa la fase in cui i grandi azionisti, tra cui lo stesso Marchionne, conseguiranno enormi guadagni. I problemi arriveranno subito dopo, quando i mercati – come naturalmente accade, cadranno. A quel punto i piccoli azionisti si ritroveranno con un pugno di mosche e chiederanno a gran voce il rilancio del titolo. Rilancio che potrà avvenire solo promettendo di aumentare la pressione sui già tartassati lavoratori del gruppo.
Il rilancio industriale, stando a questi fatti, sembra davvero un’illusione. Tanto più che, attraverso quest’operazione, Fiat ha praticamente esaurito le sue riserve di liquidità. Ragione per la quale l’agenzia di rating Moody’s ha già minacciato di declassare Fiat.
Si mettano l’anima in pace, dunque, quanti vedono nella scalata alla Chrysler un volano per il rilancio della produzione automobilistica in Italia. Gli stabilimenti nostrani continueranno a barcamenarsi tra ridimensionamenti, licenziamenti e cassa integrazione. Al momento ci pare assai più preoccupante la posizione dei lavoratori americani. United Automobile Workers e VEBA Trust infatti, pur di vedere garantita la sopravvivenza degli stabilimenti di Detroit, hanno accettato condizioni durissime per gli operai, i quali avevano già subito tagli salariali fino a 30.000 dollari annui e la perdita di 200.000 posti di lavoro.
Il sindacato americano infatti ha abbassato la testa di fronte alla richieste di Fiat: piena implementazione del World Class Manifacturing, riduzione del 30% del costo del lavoro, aumento dell’orario di lavoro e riduzione delle pause, dimezzamento del salario per i nuovi assunti, impegno a non scioperare fino al 2015, 28.000 licenziamenti.
Insomma, la magia di Marchionne non è riuscita con la sola imposizione delle mani. Più che un sogno che si avvera ci pare si tratti dell’ennesima mazzata sulla testa degli operai italiani prima e di quelli americani poi.
Come arriveranno questi soldi? Dato che si arriverà all’IPO (Initial Public Offering) e cioè alla quotazione in borsa in una fase di estremo benessere del mercato, si innescherà una corsa all’acquisto e una spirale speculativa che porterà alla supervalutazione del titolo. Sarà questa la fase in cui i grandi azionisti, tra cui lo stesso Marchionne, conseguiranno enormi guadagni. I problemi arriveranno subito dopo, quando i mercati – come naturalmente accade, cadranno. A quel punto i piccoli azionisti si ritroveranno con un pugno di mosche e chiederanno a gran voce il rilancio del titolo. Rilancio che potrà avvenire solo promettendo di aumentare la pressione sui già tartassati lavoratori del gruppo.
Il rilancio industriale, stando a questi fatti, sembra davvero un’illusione. Tanto più che, attraverso quest’operazione, Fiat ha praticamente esaurito le sue riserve di liquidità. Ragione per la quale l’agenzia di rating Moody’s ha già minacciato di declassare Fiat.
Si mettano l’anima in pace, dunque, quanti vedono nella scalata alla Chrysler un volano per il rilancio della produzione automobilistica in Italia. Gli stabilimenti nostrani continueranno a barcamenarsi tra ridimensionamenti, licenziamenti e cassa integrazione. Al momento ci pare assai più preoccupante la posizione dei lavoratori americani. United Automobile Workers e VEBA Trust infatti, pur di vedere garantita la sopravvivenza degli stabilimenti di Detroit, hanno accettato condizioni durissime per gli operai, i quali avevano già subito tagli salariali fino a 30.000 dollari annui e la perdita di 200.000 posti di lavoro.
Il sindacato americano infatti ha abbassato la testa di fronte alla richieste di Fiat: piena implementazione del World Class Manifacturing, riduzione del 30% del costo del lavoro, aumento dell’orario di lavoro e riduzione delle pause, dimezzamento del salario per i nuovi assunti, impegno a non scioperare fino al 2015, 28.000 licenziamenti.
Insomma, la magia di Marchionne non è riuscita con la sola imposizione delle mani. Più che un sogno che si avvera ci pare si tratti dell’ennesima mazzata sulla testa degli operai italiani prima e di quelli americani poi.