martedì 3 dicembre 2013

L’Africa e il futuro – Intervista ad Achille Mbembe*

di Thomas M. Blaser

L’ossessione con i confini e i visti, l’emergere del razzismo in varie parti d’Europa, il rafforzamento dei partiti di destra nel contesto della crisi economica, tutto ciò è stato dannoso per lo sviluppo di relazioni produttive e di mutuo beneficio tra Africa ed Europa. L’Europa ha teso a chiudersi in se stessa, mentre gioca ancora un ruolo importante nella politica mondiale, soprattutto quando si tratta di condurre guerre imperialiste

d. Dal 2008, quando avete avviato il Johannesburg Workshop in Theory and Criticism (JWTC), lei era molto preoccupato nel pensare al futuro: perché, e perché adesso? C’è qualcosa nell’epoca attuale che ci impone di pensare al futuro?

r. C’erano due ragioni. La prima era che la categoria di futuro era centrale nella lotta per la liberazione solo nel senso in cui chi vi partecipava doveva costantemente proiettarsi verso un tempo che sarebbe stato diverso da quello che stava attraversando, di cui faceva esperienza. In questo senso la politica riguardava dunque un continuo impegno con le forze del presente che precludevano la possibilità della libertà, ma la politica era anche strettamente associata all’idea di futuro. E ciò che sembra essere accaduto dopo il 1994 [in Sudafrica a partire dalle prime elezioni democratiche dopo l’apartheid], è lo svanire del futuro come un orizzonte temporale della politica e della cultura in generale, e la sua sostituzione con una sorta di presente come approdo infinito. Questo svanimento del futuro e il suo essere rimpiazzato da un presente infinito è stato favorito anche dal tipo di dogma economico con cui viviamo: per dirla in breve, il neoliberalismo. Il tempo del mercato, specialmente nelle attuali condizioni capitaliste, è un tempo estremamente frammentato, ed il tempo del consumo è davvero il tempo dell’istante. Abbiamo quindi voluto recuperare quella categoria del futuro e vedere fino a che punto può essere di nuovo mobilitata nel tentativo di criticare il presente, riaprendo lo spazio non solo per l’immaginazione, ma anche per la politica della possibilità.

d. In un recente convegno ad Avignone lei ha detto che avere un futuro aperto, emancipato, in passato significava separare l’oggetto dal soggetto. Perché non è più possibile? Possiamo immaginare un’altra strada di emancipazione nel momento in cui quella via non sembra più praticabile?

r. É vero che nella tradizione occidentale, della teoria critica, l’emancipazione consiste fondamentalmente nell’operare una distinzione chiara da una parte tra il soggetto umano e l’oggetto, dall’altra tra l’umano e l’animale. L’idea è che il soggetto umano è il padrone, di sé così come del mondo naturale e animale. Egli assoggetta al suo utilizzo i mondi naturali e animali. E quella libertà è il risultato della capacità di dominare se stessi, l’universo e l’agire razionalmente. Sostenevo dunque la tesi che in un’età in cui il capitalismo è diventato una sorta di religione – una religione di oggetti, una religione che crede in oggetti divenuti animati, con un’anima che condividiamo attraverso le operazioni del consumo – il capitalismo è diventato una forma di animismo. In una simile era la vecchia divisione tra soggetto e oggetto non è più così chiara come sembrava ed in effetti era in passato: se osserviamo attentamente le operazioni del consumo mondiale oggi si può vedere che molte persone vogliono diventare oggetti, o essere trattati come tali, se non altro perché diventando un oggetto possono essere trattate meglio rispetto a come sono trattate in quanto umani. Tutto ciò crea una crisi terribile nelle teorie fondamentali dell’emancipazione su cui facevamo affidamento per sviluppare una politica di apertura ed eguaglianza. Ecco dunque la questione che ho sollevato, il mio pensiero su questo punto non è andato oltre.

d. Spostiamoci più direttamente nel continente africano. Dal 2008, a causa anche della crisi economica in Occidente, si parla molto di “ascesa africana”. La gente ora parla delle possibilità del continente. Ha a che fare con la ricerca da parte del capitalismo globale di ulteriori posti da sfruttare? Il capitalismo sta tentando di avanzare in luoghi che non sono stati del tutto penetrati in precedenza? É quello che sta accadendo ora, o forse c’è qualcosa di più positivo che sta venendo fuori da questa recente svolta del capitalismo globale in Africa?

r. É vero che c’è un grande cambiamento nel discorso globale sull’Africa, uno spostamento dal discorso della crisi e dell’emergenza che ha dominato l’ultimo quarto del XX secolo, verso l’attuale ottimismo basato su alcuni fatti concreti. Ne sono degli esempi i più alti livelli di crescita economica osservati negli ultimi decenni in Africa, le grandi trasformazioni demografiche nel continente, gli elevati tassi di rendimento e perciò la capacità di attrarre l’attenzione di investitori stranieri con una velocità mai vista prima, il fatto che sta riemergendo come forza economica il ceto medio che era stato decimato nel periodo dei programmi di aggiustamento strutturale. C’è quindi un insieme di indicatori che sembra suggerire l’emergere di qualcosa di differente rispetto a quello cui abbiamo assistito in passato. Bisogna anche considerare il fatto che un gran numero di investimenti sono fatti nei settori estrattivi dell’economia e perciò sono soggetti alla volatilità e ai cambiamenti che caratterizzano non solo il ciclo economico in generale, ma specialmente questo settore. Qui c’è un boom minerario di importante entità, della cui durata non siamo sicuri. Chiaramente, un certo numero di persone si stanno arricchendo, sia sul piano locale, sia quelli che vengono a investire nel continente. Ma il risultato – o il paradosso – di questo tipo di crescita è che, come sappiamo, non sta creando molti posti di lavoro, approfondisce le ineguaglianze sociali, mentre l’Africa sta ancora affrontando sfide enormi in termini di investimento nelle infrastrutture di base, nelle strade, nelle comunicazioni, negli aeroporti, nelle autostrade e nelle ferrovie. Inoltre, il continente è ancora minacciato dall’instabilità politica, tanto nella forma delle guerre locali, quanto in quella del disordine sociale. Il quadro generale deve essere bilanciato, mi sembra che l’Africa rappresenti infatti l’ultima frontiera del capitalismo. Il problema è in quali condizioni saranno portate avanti queste nuove forme di sfruttamento, da chi e a beneficio di chi.

d. L’Africa è nota per violenti conflitti che fanno regredire il continente: pensa che ci sia la possibilità che gli africani superino questo tipo di politica violenta?

r. Non lo so. Può darsi che dovremo convivere con la violenza, proprio come abbiamo visto altre comunità politiche convivere con essa per un periodo di tempo molto, molto lungo. La Colombia è in uno stato di guerra interna da un lungo periodo. In Messico è più o meno la stessa cosa, lì la violenza sta assumendo forme diverse. In posti come il Brasile, l’India o il Pakistan c’è un livello di violenza sociale piuttosto elevato e va di pari passo con le istituzioni della politica civile, se si vuole usare questo termine. Se dunque assumiamo un punto di vista storico, non ci sarà mai un momento in cui saremo in pace con noi stessi e con i nostri vicini, e il tipo di formazioni sociali, economiche e politiche che stanno emergendo nel continente e anche altrove saranno sempre un miscuglio di pace civile e violenza. Ma una volta detto questo, mi sembra che una delle principali sfide nel continente sia la demilitarizzazione della politica. Il progetto della demilitarizzazione della politica è una precondizione per un regime di crescita economica da cui possano trarre beneficio il maggior numero di persone. Per il momento, della combinazione di militarismo e mercantilismo in posti come il Congo, anche in regimi plutocratici come la Nigeria, stanno beneficiando esclusivamente le èlites predatorie e le multinazionali.

d. Lei è stato un critico del ruolo dell’Europa e dei continui rapporti coloniali che ha mantenuto. Allo stesso tempo, l’Europa si sta quasi spegnendo, e come ha scritto sta provincializzando se stessa. Questa Europa che sta emergendo è in duro contrasto con l’Africa e gli altri paesi in via di sviluppo che stanno avanzando economicamente, socialmente e politicamente, creando così il proprio mondo?

r. In rapporto al continente, nel corso degli ultimi 25 anni o giù di lì l’Europa ha sviluppato un’attitudine al contenimento, nel senso che la sua maggiore preoccupazione è quella di essere sicuri che gli africani stiano dove sono. La fissazione con la questione dell’immigrazione ha compromesso in larga misura lo sviluppo di relazioni più dinamiche tra Africa ed Europa. L’ossessione con i confini e i visti, l’emergere del razzismo in varie parti d’Europa, il rafforzamento dei partiti di destra nel contesto della crisi economica, tutto ciò è stato dannoso per lo sviluppo di relazioni produttive e di mutuo beneficio tra Africa ed Europa. L’Europa ha teso a chiudersi in se stessa, mentre gioca ancora un ruolo importante nella politica mondiale, soprattutto quando si tratta di condurre guerre imperialiste. Al contempo, abbiamo visto in quale misura nuovi attori come Cina, India, Turchia, Brasile e qualche altro paese hanno provato a giocare un ruolo nella riconfigurazione politica in corso. Tuttavia, in ultima analisi la sfida per l’Africa è di diventare il centro di se stessa. Per farlo, come ho detto prima, è necessario demilitarizzare la politica come precondizione per la democratizzazione dell’economia. Il continente dovrà diventare un vasto spazio regionale di circolazione, il che significa che dovrà smantellare i propri confini interni, aprirsi a nuove forme di migrazione, interne ed esterne, come in certa misura sta succedendo in Mozambico e in Angola, dove stanno facendo ritorno alcuni portoghesi. Mentre l’Europa chiude i suoi confini, l’Africa deve aprire i propri. Mi sembra quindi che solo nel divenire un vasto spazio di circolazione l’Africa possa beneficiare positivamente dell’attuale riconfigurazione geopolitica del mondo.

d. In questa riconfigurazione, ciò che sta bloccando il continente è forse l’immagine stereotipata che europei e americano hanno dell’Africa e del suo popolo. Di recente, quando il sociologo Jean Ziegler ha presentato il suo libro sulla crisi alimentare globale, un giornalista svizzero gli ha chiesto se la bassa produttività dell’agricoltura in Africa dipenda dalla pigrizia dei contadini africani: si tratta davvero di uno stereotipo, se non di un’affermazione razzista, ma mi sembra che un simile pregiudizio sia comune tra gli europei. Gli africani dovrebbero preoccuparsi di questa immagine oppure ignorarla?

r. Penso che dovremmo lasciare agli europei il problema di affrontare le loro stupidaggini, perché noi dobbiamo affrontare compiti e progetti più urgenti. Non possiamo permetterci di perdere le nostre preziose energie con il tipo di malattia mentale che l’Europa ha causato in Africa e altrove. Deve essere l’Europa a fare i conti con le proprie malattie mentali, prima tra tutte il razzismo. Quello su cui dobbiamo concentrarci è l’agenda africana nel mondo che si sta plasmando di fronte a noi, un mondo in cui la Cina sta emergendo come un attore di primaria importanza, un mondo in cui l’unica proposta che viene dal morente impero americano è più militarismo, un mondo in cui la sola idea che arriva dall’Europa è il ritrarsi e la costruzione di una fortezza che la circonda. L’Africa ha bisogno di diventare il centro di se stessa, mettendo la sua gente a lavorare per questo obiettivo. Come dicevo, re-immaginare una nuova politica della mobilità con migrazioni interne, formazioni di nuove diaspore, collegamenti con quelle vecchie, un ridirezionamento delle energie al fine di attingere quelle provenienti da altri posti nel mondo, come il Brasile, l’India e la Cina. Tutto ciò mi sembra più eccitante rispetto al vecchio e fallito tentativo di portare l’Europa a vedere se stessa come qualcosa di più che una semplice provincia di un pianeta più ampio.

d. Qual è allora il contributo africano al mondo futuro? Specialmente avendo in mente l’idea che ci stiamo allontanando da un mondo in cui l’Africa dipende da altri. Quali vie diverse può offrire l’Africa al mondo (prima parlava dei modi di circolazione)? In questo movimento, quale ruolo giocano le concezioni indigene di umanità, come quella Ubuntu?

r. Da un punto di vista teorico, ci sono numerose possibilità. Quando guardiamo alla storia culturale del continente, mi sembra che sia caratterizzata da almeno tre attributi che possono essere considerati concettualmente creativi. Il primo è l’idea di molteplicità. Ogni singola cosa del continente è nel segno del molteplice: l’idea di un dio è totalmente estranea al continente, ci sono sempre stati molti dei; le forme del matrimonio; le forme delle valute; le stesse forme sociali sono sempre nel segno della molteplicità. Una delle tragedie del colonialismo è stata di cancellare quell’elemento di molteplicità che era sempre stato una risorsa dello sviluppo sociale nell’Africa pre-coloniale e che è stato rimpiazzato dal paradigma dell'“uno”, il tipo di paradigma monoteistico. Dunque, come possiamo ritrovare l’idea di molteplicità appunto come risorsa per il farsi del continente, il suo ricrearsi, ma anche per la formazione del mondo? Un altro importante concetto che non abbiamo esplorato molto, ma che viene dalle esperienze culturali della storia africana, è quello dei modi di circolazione e della mobilità, del movimento. Non era affatto vero, come sostenevano Hegel e coloro che l’hanno seguito, che l’Africa fosse un continente chiuso, per nulla. É sempre stato un continente in movimento. Quel concetto di circolazione è dunque qualcosa che può essere mobilitato per mostrare cosa può venire fuori da questa esperienza. Ho parlato prima di molteplicità, poi di circolazione: il terzo elemento è la composizione. Tutto è composizionale, nel modo in cui l’economia è quotidianamente vissuta. Lei ha citato Ubuntu: significa il processo di diventare una persona, una certa proposizione, non è l’identità in quanto categoria metafisica o ontologica come nella tradizione occidentale, ma un processo del divenire come relazione; una relazione in cui l’“io”, cioè il soggetto, è fatto e rifatto attraverso l’interazione etica con quello o con chi non è lui. É l’idea per cui l’altro è un altro me, l’altro è l’altro solo nella misura in cui lui o lei è un altro me. Perciò l’altro non è fuori da me, in un certo senso io sono il mio altro. C’è quindi un intero insieme di aree in cui il contributo dell’Africa al mondo delle idee e della prassi può essere evidenziato a beneficio del mondo, che implicano tutte queste cose: teorie dello scambio, teorie della democrazia, teorie dei diritti umani, i diritti delle altre specie, incluse le specie naturali in questa età di crisi ecologica. É un lavoro che non è stato fatto, ma è tempo di iniziare a farlo.

* Pubblicato su Africa is a Country. Traduzione di commonware