sabato 7 dicembre 2013

“La negazione della negazione è una sorta di colpo di stato dialettico”

di Mario Pezzella

questo pezzo è la “Digressione” conclusiva del saggio “La Teologia del denaro di Walter Benjamin: il debito”, pubblicato sulla rivista Consecutio Temporum, alla quale rinviamo per la lettura integrale, dove si possono consultare anche le note bibliografiche qui tralasciate (di cui ci scusiamo con l’autore), cliccando il link  a fondo pagina

La negazione della negazione è una sorta di colpo di stato dialettico, e tale rimane anche nella versione secolarizzata di Marx, che la fa derivare dalla contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione. La fede escatologica che l’estremo della negatività si capovolga necessariamente nel Mondo Nuovo, nel contesto del capitalismo attuale, ha tutti i caratteri di un mito storico, con una funzione analoga a quello della repubblica romana per i rivoluzionari francesi del 1789. È  cioè un’immagine di sogno, che richiede interpretazione. Pure, vien riproposta in varie forme anche nel pensiero critico contemporaneo.
Il passo di Marx sulla negazione della negazione si trova in epigrafe a un importante capitolo del libro Comune di Hardt-Negri e l’idea che dall’interno stesso delle contraddizioni del capitale fioriscano  le nuove soggettività che lo abbatteranno è ripetuta più volte nel testo, per esempio: “Questo è il modo in cui il capitale genera i suoi becchini: se vuole perseguire i suoi interessi e vuole autoconservarsi, il capitale deve necessariamente incentivare il potere e l’autonomia della moltitudine che nel frattempo diventano sempre più grandi. Quando l’accumulazione dei poteri della moltitudine oltrepasserà un certo livello, la moltitudine sarà in grado di padroneggiare autonomamente la ricchezza comune”. Il termine moltitudine ha sostituito quello del proletariato, ma la logica del rovesciamento è la stessa.
Si può obiettare che ora questo ragionamento è giustificato dalle profonde trasformazioni del lavoro e dal suo divenire sempre più immateriale, cognitivo, fondato sull’estensione sociale del comune e della comunicazione. È  questa produttività mentale, che il capitale non può non incentivare nella sua configurazione attuale e d’altra parte sfugge sempre più intensamente al suo controllo. Così dovrebbe essere: però così non è, ed è necessario spiegare perché ciò che in potenza è liberatorio incrementi in forme inedite la schiavitù dei salariati e la loro dipendenza da rapporti di padronanza: “Anziché focolaio di crisi, la sproporzione tra il ruolo assolto dal sapere e la decrescente importanza del tempo di lavoro ha dato luogo a nuove e stabili forme di dominio”. Difficile pensare che la forza produttiva immateriale, in quanto tale, produca un attenuarsi dello sfruttamento, che invece si estende dal corpo alla mente, cancella ogni confine tra tempo di lavoro e tempo libero, produce tipologie inedite di controllo e di manipolazione: “L’innovazione tecnologica non è universalistica…Il postfordismo riedita tutto il passato della storia del lavoro, da isole di operaio-massa a enclaves di operaio professionale, da un rigonfiato lavoro autonomo a ripristinate forme di dominio personale. I modelli di produzione succedutisi nel lungo periodo si ripresentano sincronicamente, quasi alla stregua di una esposizione universale”.
Può essere anche vero che il tempo di lavoro, in epoca postfordista, sia divenuto del tutto inadeguato a misurare il valore della ricchezza prodotta, come afferma un ormai commentatissimo passo dei Grundrisse di Marx, e tuttavia questa misurazione continua essere applicata, in modo spietato. D’altra parte, il progetto attuale del capitale sembra comporre in Uno tempi e luoghi difformi e apparentemente contraddittori: la diffusione delle forze produttive cognitive e immateriali non esclude, ed anzi prevede, un feroce sfruttamento “fordista” o addirittura la violenza dell’accumulazione originaria (non solo fuori d’Europa, ma anche nelle “periferie” urbane dell’Occidente). Non si tratta di “ritardi”, che verranno colmati, portando tutta la produzione al livello del general intellect. C’è un nesso strutturale fra tipologie di sfruttamento “arcaiche” e l’astratto lavoro immateriale: “L’accumulazione del capitale si alimenta di ineguaglianze sociali e spaziali necessarie al suo metabolismo…” e il suo movimento astratto agisce cercando di far coesistere a proprio profitto le forme di dominio più antiche e il sapere altamente qualificato della scienza.
Del resto, che il tempo di lavoro sia divenuto misura inadeguata del valore non vuol dire affatto che si sia trasformato o stia per trasformarsi in tempo libero. Si può ritenere che la differenza fra i due si stia sempre più assottigliando a vantaggio di un “tempo di produzione” (Virno) generico, che comprende anche le ore pseudo-ludiche passate al computer o al cellulare, addestrando comunque le proprie facoltà percettive e cognitive nel senso richiesto dalle attuali forme di precarietà; oppure si può mantenere la vecchia terminologia e considerare “tempo di lavoro” queste stesse attività, benché si svolgano fuori dai luoghi di produzione tradizionali.
È vero che l’operaio posto a controllare una macchina, che deve premere un pulsante esattamente ogni sessanta minuti, per cinquantanove resta apparentemente inattivo, sta accanto ad essa senza far niente. Ma è davvero un far niente? In realtà la tensione muscolare inconsapevole, l’attenzione rivolta a non mancare il minuto decisivo, la latente “cura” e apprensione perché l’intero meccanismo funzioni regolarmente, i rumori e le luci, che comunque gli inviano messaggi dal macchinario, tutto ciò non è ancora lavoro, dispendio di energia fisica e mentale, sia pure diverso da quello “fordista”? Computandolo in questo modo, è da dimostrare che il “tempo” ad esso destinato sia effettivamente diminuito o non piuttosto si si sia esteso a quasi tutta la vita. Certo si può dire -e in fondo non è molto diverso- che il tempo di produzione comprende ora “anche il non-lavoro, le esperienze e le conoscenze maturate al di fuori fabbrica e dell’ufficio” oppure, con una sfumatura diversa dei termini, che la cooperazione sociale del “lavoro postfordista è sempre, anche, lavoro sommerso”, e che questo è in primo luogo “vita non retribuita, ossia la parte di attività umana che, omogenea in tutto a quella lavorativa, non è però computata come forza produttiva”.
Resta il fatto che il tempo dominato e asservito in qual modo si voglia alla creazione di plusvalore relativo, tende nelle tipologie attuali di produzione ad aumentare a dismisura e nient’affatto a produrre forme di potenziale libertà, che attendano solo un colpo di gomito per superare l’egemonia del capitale. Per interrompere il dominio del lavoro astratto, anche nel postfordismo, occorre dunque un’azione politica che spezzi la sua continuità e non nasce dallo sviluppo automatico delle forze produttive (neanche di quelle cognitive) e delle loro contraddizioni: queste al massimo producono una situazione di crisi in cui tale azione sarebbe possibile e pensabile, ma nient’affatto destinale o necessaria.
In che direzione conviene muoversi per costruire una tale soggettività? In un recente e interessante scambio di lettere con M. Hardt, J. Holloway propone un ritorno alla qualità e alla specificità dei valori d’uso, dunque un mutamento della produzione, che dovrebbe orientarsi verso forme comunalistiche, in parte ereditate dal passato, in parte inventate ex novo. Si tratterebbe di opporre il lavoro vivo e concreto a quello astratto del capitale, accettando se necessario un tasso di decrescita e una limitazione dell’attuale sfruttamento delle risorse della terra.
Hardt critica questa prospettiva, giudicandola affetta da regressione romantica verso il mondo artigianale e contadino: “Nella tua riflessione, il lavoro astratto è un antagonista fondamentale e, se capisco bene, lo sono i processi concettuali più generali di astrazione… Un progetto politico che afferma il valore d’uso sul valore di scambio mi sembra un tentativo nostalgico di riedificare un ordine sociale pre-capitalista. Al contrario, il progetto di Marx, come lo capisco io, si apre la strada all’interno della società capitalistica per uscire dall’altro lato. Allo stesso modo, non credo che il lavoro astratto sia l’antagonista. Dire che senza lavoro astratto non ci sarebbe proletariato costituisce una semplificazione (anche se credo sia importante). Se il lavoro del muratore, del carpentiere, dell’agricoltore, del tessitore e del meccanico di automobili fossero concreti e incommensurabili, non avremmo un concetto generale del lavoro (del lavoro umano in generale, a prescindere da come è stato impiegato, come dice Marx) che potenzialmente li vincolino come classe”.
Probabilmente entrambi i poli di questa alternativa non giungono a soluzioni interamente soddisfacenti. Le riflessioni di Benjamin possono contribuire forse ancora al dibattito attuale. Sostanzialmente contrario a ogni ritorno al valore d’uso e al premoderno (concepibile solo con la restaurazione di forme mitiche e rituali-magiche di potere), egli è però anche radicalmente critico verso il principio di astrazione sviluppato entro la dimensione del capitale. La seconda tecnica –che pone un rapporto armonico con la natura e una relazione di gioco intersoggettivo- prevede un principio di simbolizzazione altrettanto complesso ma radicalmente alternativo a quello del capitale: non si sviluppa dal suo interno, ma sempre e decisamente contro di esso. Esiste una rottura epistemologica radicale tra prima e seconda tecnica, che presuppone una discontinuità politica altrettanto netta. Non si tratta dunque di opporre techne e comunitarismo artigianale, ma la scienza su cui fondare un comune capace di sviluppare il gioco e il riconoscimento intersoggettivo, contro una tecnica magica che sviluppa il dominio. Non è lo stesso utensile, costruito con lo stesso progetto, che basterebbe cambiare di mano per renderlo da negativo positivo: è uno strumento materialmente e idealmente opposto, che prevede la distruzione dell’altro, come la tecnica delle energie naturali si basa su una visione antropologica e esistenziale incompatibile con quella fondata sul petrolio o sul carbone. La rivoluzione epistemologica è altrettanto radicale di quella politica.
Non ogni astrazione coincide necessariamente con quella sviluppata dal capitale: “…L’astrazione reale che Marx pone a base della sua analisi del Capitale…non è l’astrazione logico-mentale, che è propria dei processi conoscitivi”; questa capacità generalmente umana di simbolizzazione più che coincidere con la particolare figura della scienza capitalista collide con essa e con la sua intenzione di fondo, e da questa viene negata e atrofizzata. Si può invece concepire un lavoro della mente altamente complesso, che si oppone alla sua contraffazione nel “lavoro mentale” e non mira alla negazione dell’essere psichico-affettivo dell’uomo, ma al suo affinamento simbolico e intersoggettivo: “…In esso il soggetto umano entra in un rapporto, non di scissione e contrapposizione, ma di distanziamento e simbolizzazione con il proprio corpo emozionale…”, l’attività mentale e la physis si affinano reciprocamente nel “gioco” descritto da Benjamin e da lui opposto alla “magia” del lavoro astratto. Né ritorno al valore d’uso, né proseguimento della logica dell’astrazione reale, ma costituzione di un essere in comune antagonistico rispetto a quello del capitale. L’attività simbolica e non l’astrazione capitalistica è una “funzione trascendentale dell’esperienza umana” o –per usare un termine che verrà chiarito in seguito- un esistenziale storico.