di Andrea Fumagalli , Carlo Vercellone
Più che di un reddito di cittadinanza si dovrebbe
parlare di un reddito di base incondizionato: un salario sociale legato ad un
contributo produttivo oggi non riconosciuto. La sua instaurazione permetterebbe
la transizione verso un modello di sviluppo fondato sul primato del non-mercantile
e di forme di cooperazione alternative
Sia sul sito di Sbilanciamoci che su il
manifesto sono apparsi alcuni articoli critici in materia di reddito di
cittadinanza (vedi, tra gli altri, gli articoli di Pennacchi, Lavoro, e non reddito, di
cittadinanza, e Lunghini, Reddito sì, ma da lavoro).
In questa sede, vorremmo chiarire alcuni principi di fondo per meglio far
comprendere che cosa, a nostro avviso, si debba intendere quando in modo assai
confuso e ambiguo si parla di “reddito di cittadinanza”. Noi preferiamo
chiamarlo reddito di base incondizionato (Rbi) ed è su questa concezione che
vorremmo si sviluppasse un serio dibattito (con le eventuali critiche). Le note
che seguono sono una parte di una più lunga riflessione che apparirà sul n. 5
dei Quaderni di San Precario.
La proposta di un Rbi di un livello sostanziale e
indipendente dall’impiego, elaborata nel quadro della tesi del capitalismo
cognitivo, poggia su due pilastri fondamentali.
Il primo pilastro riguarda il ruolo di un Rbi in
relazione alla condizione della forza lavoro in un’economia capitalista. La
disoccupazione e la precarietà sono qui intese come il risultato della
posizione subalterna del salariato (diretto e eterodiretto) all’interno di un’economia
monetaria di produzione: si tratta della costrizione monetaria che fa del lavoro
salariato la condizione d’accesso alla moneta, cioè a un reddito dipendente
dalle anticipazioni dei capitalisti concernenti il volume della produzione e
quindi del lavoro impiegabile con profitto. In questa prospettiva, il ruolo del
Rbi consiste nel rinforzare la libertà effettiva di scelta della
forza lavoro incidendo sulle condizioni in virtù delle quali, come sottolineava
ironicamente Marx, il “suo proprietario non è solo libero di venderla, ma si
trova anche e soprattutto nell’obbligo di farlo”. Inoltre, il carattere
incondizionato e individuale del Rbi – in quanto strumento e non fine a e
stesso (spesso si fa confusione al riguardo) – aumenterebbe il grado di
autonomia rispetto ai dispositivi tradizionali di protezione sociale ancora
incentrati sulla famiglia patriarcale e su una figura del lavoro stabile che
oggi ha perso la sua centralità storica.
Da questa concezione derivano due corollari
essenziali.
In primo luogo, l’importo monetario del Rbi deve
essere sufficientemente elevato (almeno la metà se non il 60% del salario
mediano – non medio) per permettere di opporsi all’attuale degradazione delle
condizioni di lavoro e favorire la mobilità scelta a discapito della mobilità
subita sotto la forma di precarietà. In questa prospettiva, il Rbi permetterebbe
inoltre un effettiva diminuzione del tempo di lavoro. La garanzia di continuità
del reddito permetterebbe infatti a ognuno di gestire i passaggi tra diverse
forme di lavoro e di attività riducendo il tempo di lavoro sull’insieme del
tempo di vita in modo più efficace che attraverso una riduzione uniforme del
tempo di lavoro sulla settimana lavorativa, in un contesto in cui per una parte
crescente della forza-lavoro l’orario settimanale di lavoro non è più oggi
quantificabile, né misurabile.
In secondo luogo, la proposta di Rbi si iscrive in un
progetto più ampio di rafforzamento della logica di demercificazione dell’economia
all’origine del sistema di protezione sociale che si propone di completare
salvaguardando le garanzie legate alle istituzioni del Welfare (pensioni,
sistema sanitario, indennità di disoccupazione, ecc.) e adeguandole alle nuove
forme di lavoro, che oggi ne sono escluse (la maggior parte dei precari non
riesce ad accedere a nessun ammortizzatore sociale oggi in vigore)
Il secondo pilastro della nostra concezione del Rbi
consiste nel considerarlo come un reddito primario, vale a dire un salario
sociale legato ad una contribuzione produttiva oggi non remunerata e non
riconosciuta.
Infatti, contrariamente agli approcci in termini di fine
del lavoro, la crisi attuale della norma fordista dell’impiego è lungi dal
significare una crisi del lavoro come fonte principale della produzione di
valore e di ricchezza (non mercantile). Al contrario. Il capitalismo cognitivo
non è solo un’economia intensiva nell’uso del sapere, ma costituisce al tempo
stesso e forse ancor più del capitalismo industriale, un’economia intensiva in
lavoro, benché questa dimensione nuova del lavoro sfugga spesso ad una
misurazione ufficiale, sia per quanto riguarda il tempo effettivo di lavoro che
la tipologia delle attività che non possono essere del tutto assimilate alle
forme canoniche del lavoro salariato.
Questa trasformazione trova la sua origine principale
nel modo in cui lo sviluppo di un’intellettualità diffusa e la dimensione
cognitiva del lavoro hanno condotto, a livello della fabbrica come della
società, all’affermazione di un nuovo primato dei saperi vivi, mobilizzati dal
lavoro, rispetto ai saperi incorporati nel capitale fisso e nell’organizzazione
manageriale delle imprese. Da questo deriva anche la crisi del “regime
temporale” che all’epoca fordista opponeva rigidamente il tempo di lavoro
diretto, effettuato durante l’orario ufficiale di lavoro, e considerato come il
solo tempo produttivo, e gli altri tempi sociali dedicati alla riproduzione
della forza lavoro, considerati come improduttivi.
Due tendenze mostrano la portata e la posta in gioco
di questa trasformazione.
La prima rinvia alla dinamica che vede la parte del
capitale chiamato intangibile (educazione, formazione, salute, R&S) e
incorporato essenzialmente negli uomini (il cosìdetto capitale umano) superare
la parte del capitale materiale nello stock di capitale e rappresentare ormai
il fattore principale della crescita. Ora, questo fatto stilizzato significa
che le condizioni della riproduzione e della formazione della forza lavoro sono
diventate direttamente produttive e che la fonte della ricchezza delle nazioni
si trova sempre più a monte del sistema delle imprese. In secondo luogo, viene
evidenziato un altro fatto sistematicamente omesso dagli economisti dell’Ocse:
i settori motori del nuovo capitalismo della conoscenza corrispondono sempre
più ai servizi collettivi assicurati storicamente dal Welfare-State. Si tratta
di attività dove la dimensione cognitiva del lavoro è dominante e si potrebbe
sviluppare potenzialmente un modello di sviluppo alternativo fondato sulla
produzione dell’uomo attraverso l’uomo e la centralità di servizi universali
forniti al di fuori di un logica di mercato. Tutti questi fattori, e gli
interessi molto materiali che essi suscitano, permettono di spiegare la
pressione straordinaria esercitata dal capitale per privatizzare o in ogni caso
sottomettere alla sua razionalità i servizi collettivi del Welfare introducendovi,
per esempio, nello spirito del New Public Management, la logica
della concorrenza e del risultato quantificato, preludio
all’affermazione pura e semplice della logica del valore. La cosiddetta crisi
del debito sovrano è stata e resta il pretesto per accelerare queste tendenze.
Abbiamo probabilmente qui una delle spiegazioni più logiche dell’irrazionalità
macro-economica delle politiche pro-cicliche e dei piani d’austerità richiesti
dai mercati finanziari e dalla celebre Troika (Fmi, Ue, Bce).
La seconda evoluzione concerne il passaggio, in
numerose attività produttive, da una divisione taylorista ad una divisione
cognitiva del lavoro fondata sulla creatività e la capacità d’apprendimento dei
lavoratori. In questo contesto, il tempo di lavoro immediato dedicato alla
produzione durante l’orario ufficiale di lavoro diventa soltanto una frazione
del tempo sociale di produzione. Per la sua stessa natura, il lavoro cognitivo
si presenta infatti come la combinazione complessa di un’attività di
riflessione, di comunicazione, di scambio relazionale di conoscenza e saperi
che si svolge tanto all’interno quanto al di fuori delle imprese e dell’orario
contrattuale di lavoro. Di conseguenza, i confini tradizionali tra lavoro e non
lavoro, si attenuano, e ciò avviene con una dinamica contraddittoria. Da un
lato, il tempo libero non si riduce più alla sola funzione catartica di
riproduzione del potenziale energetico della forza lavoro. La riproduzione oggi
non avviene più solo all’interno della famiglia, ma assume sempre più connotati
sociali. Con riferimento al ruolo femminile, la riproduzione sociale svolge le
funzioni di “casalinga del capitale”, come ci ricorda Cristina Morini. Essa,
infatti, si articola sempre più su attività di formazione, di
autovalorizzazione, di lavoro volontario nelle reti dell’economia sociale e
delle comunità di scambio dei saperi che attraversano le differenti attività
umane. Queste sono attività nelle quali ogni individuo trasporta il suo sapere
da un tempo sociale all’altro, accrescendo il valore d’uso individuale e
collettivo della forza lavoro, che – sic rebus stantibus – il
capitale è in grado di tradurre poi in valore di scambio e/o valore
finanziario.
Dall’altro, per questa stessa ragione si creano un
conflitto e una tensione crescenti tra questa tendenza all’autonomia del lavoro
e il tentativo del capitale di assoggettare l’insieme dei tempi sociali alla
logica eteronoma della valorizzazione del capitale.
Questa tensione contribuisce a spiegare la stessa
destabilizzazione dei termini tradizionali dello scambio capitale-lavoro
salariato. Nel capitalismo industriale, il salario era la contropartita
dell’acquisto da parte del capitale di una frazione di tempo umano ben
determinata messa a disposizione dell’impresa. Il capitalista, doveva
allora occuparsi delle modalità più efficaci dell’utilizzo di questa frazione
di tempo pagato al fine di estrarre dal valore d’uso della forza lavoro la
massima quantità di plusvalore. Il taylorismo grazie all’espropriazione dei
saperi operai e alla rigida prescrizione dei tempi e delle mansioni fu a suo
tempo la soluzione adottata. Nella fabbrica fordista, il tempo effettivo di
lavoro, la produttività, il valore e il volume della produzione sembravano
perfettamente predeterminati in modo “scientifico”, anche se in realtà la
catena di montaggio non avrebbe mai potuto funzionare senza uno scarto
importante tra le consegne prescritte e l’attività reale. Il solo vero rischio
per il capitale era che questa implicazione paradossale dell’operaio-massa si
tramutasse in insorgenza antagonista. Come è avvenuto. Ma tutto
cambia allorché il lavoro, diventando sempre più cognitivo, non può più essere
prescritto e ridotto a un semplice dispendio di energia effettuato in un tempo
determinato. Il vecchio dilemma si ripropone quindi in nuovi termini: non solo
la crisi della cosiddetta organizzazione scientifica del lavoro rende
nuovamente il capitale dipendente dai saperi dei lavoratori, ma quest’ultimo
deve ottenere un’implicazione attiva dell’insieme dei saperi e dei tempi di
vita. La “prescrizione della soggettività“, l’obbligo al risultato, la
pressione del cliente insieme alla costrizione pura e semplice legata alla
precarietà sono le principali vie trovate dal capitale per tentare di
rispondere a questo problema per certi aspetti inedito. Le diverse forme di
precarizzazione del rapporto salariale sono infatti anche e soprattutto uno
strumento per il capitale per imporre e beneficiare gratuitamente di questa
subordinazione totale, senza riconoscere e senza pagare il salario corrispondente
a questo tempo non integrato e non misurabile nel contratto di lavoro.
Nel capitalismo contemporaneo, cognitivo e
finanziarizzato, la precarietà sembra stare al lavoro come, nel capitalismo
industriale, la parcellizzazione delle mansioni operaia stava al taylorismo.
La stessa logica spiega perché il processo di
dequalificazione della forza lavoro sembra aver ormai ceduto il passo a un
massiccio fenomeno di declassamento, dove con questo concetto si
designa una svalorizzazione delle condizioni di remunerazione
e di impiego rispetto alle qualificazioni (certificate dal diploma) e alle
competenze effettivamente messe in opera dal lavoratore nello svolgimento della
propria attività lavorativa.
In definitiva, il Rbi si presenta al tempo come un
reddito primario per gli individui e un investimento collettivo della società
nel sapere, via maggior sfruttamento di quelle economie di apprendimento e di
rete, oggi in grado di incrementare la produttività sociale che in Italia viene
a mancare. La sua instaurazione permetterebbe, congiuntamente alla
riappropriazione democratica dei servizi collettivi del Welfare, la
transizione verso un modello di sviluppo fondato sul
primato del non mercantile e di forme di cooperazione alternative tanto al
pubblico quanto al mercato nei loro principi di organizzazione.
fonte: www.sbilanciamoci.info