venerdì 5 luglio 2013

Startup, classe creativa e capitalismo delle “relazioni”

di Vincenzo Cuomo

proponiamo una versione ridotta dell’intervento pubblicato su Kainos (numero 13 - Derive del lavoro)Si tratta di alcune riflessioni sul tema delle nuove forme del lavoro nell’epoca del “capitalismo digitale” che prendono, in particolare, spunto dal volume di Carlo Formenti (Felici e sfruttati. Il capitalismo digitale e l'eclissi del lavoro) e dalla rilettura del saggio di Jean-Luc Nancy, La création du monde ou la mondialisation (2002). Nel quadro della ns. riduzione manca del tutto la nota dedicata alla vicenda dell’operaismo che ha avuto partendo dall’operaio-massa e ha continuato ad avere, nel corso delle sue evoluzioni teoriche dall’operaio-sociale fino alla moltitudine negriana, un ruolo fondamentale nei percorsi di decostruzione/ricostruzione della critica marxiana non solo a livello nazionale. Per l’approfondimento del passaggio tematico preferiamo opportunamente rinviare alla lettura integrale della ricca riflessione dell’autore  

Lavoro produttivo-lavoro improduttivo
Ancora negli anni Settanta dello scorso secolo, nella fase di inizio della profonda crisi dell'economia capitalistica fordista e pre-informatica, la distinzione/opposizione tra “lavoro produttivo” e “lavoro improduttivo” sembrava teoricamente e politicamente sostenibile. C'erano lavori che producevano “valore economico” (per il capitale) e lavori che per definizione non lo producevano, come i lavori di “servizio” statali (burocrazia, esercito, polizia, scuola, università). Per “lavoro produttivo” si intendeva allora quello specificatamente operaio, mentre quello improduttivo era invece quello dei travèt statali, ma anche quello degli insegnanti o dei poliziotti. Tuttavia, la “centralità” del lavoro operaio per il profitto capitalistico faceva sì che, in modo a volte indiretto ma sempre ideologicamente potente, quel tipo di lavoro assumesse i connotati di “lavoro umano” per eccellenza, con una confusione di piani discorsivi alla quale pochi si sottraevano. Tanto che allora era molto comune l'equiparazione tout court del lavoro intellettuale al lavoro improduttivo, anche se sarebbe bastato leggere meglio Marx per riportare la distinzione ai suoi termini precisi.
(…) L'utilizzo dell'informatica è stato il “catalizzatore” di una trasformazione radicale del capitalismo; trasformazione che ha reso non più praticabile la separazione tra lavoro produttivo e improduttivo, in quanto è l'intera attività umana che è divenuta sfruttabile e sfruttata. 
Le reti informatiche hanno trasformato il capitalismo dei consumi, che prosperava ancora sulla (relativa) separazione tra tempo di lavoro (coatto e sfruttato nella grandi fabbriche fordiste) e tempo del loisir, dell'intrattenimento, in un bio-tecno-capitalismo che sa sfruttare ogni manifestazione vitale dei prosumers (“producer” + “consumer”) attraverso la loro continua e radicale “profilatura”, fino ad individualizzare l'offerta ad un punto tale che tra l'offerta e la domanda individuale non ci sia più differenza: l'offerta commerciale, potremmo dire, non è che la domanda “in forma invertita”(…).
Il nuovo capitalismo digitale non prevede più la separazione tra lavoro produttivo e improduttivo né quella tra tempo di lavoro e tempo del loisir. Tutto il tempo della vita dei prosumers, nonché quella della “classe dei creativi” è materia “semilavorata” da vendere con profitto alle aziende capitalistiche.
Tutto il tempo della vita è percepita dai “creativi” come tempo di loisir, anche “dentro” le aziende. E il management più avanzato ne è consapevole da tempo. È quello che si chiama “management della complessità”(…): «…Il manager che vuole governare la complessità mette in secondo piano l'azione diretta e si pone come obiettivo fondamentale, diretto e consapevole la creazione di un contesto di lavoro che favorisca l'emergere di dinamiche auto-organizzative coerenti con gli obiettivi dell'impresa».(…)
 
Start-up (il capitalismo costituente)
(...) Quel che ho chiamato sinteticamente bio-tecno-capitalismo mi sembra essere caratterizzato da una “generalizzazione” e da un “restringimento”: da un lato, infatti, la sfruttabilità dell'attività vitale altrui si è generalizzata, dall'altro il suo sfruttamento capitalistico tende a restringersi nelle mani di èlite economico-finanziarie. Gran parte delle analisi sociologiche sono concordi nel descrivere la tendenziale sparizione delle “classi medie”. Nelle megalopoli “globalizzate”, in cui si concentra la maggioranza assoluta sia della “classe creativa” che del potere finanziario, questa tendenza sembra inarrestabile. Tuttavia, ciò che le analisi sociologiche che attestano la sparizione delle classi medie non sempre mettono in evidenza è questa “polarizzazione” tra la generalizzazione della sfruttabilità delle relazioni sociali e la concentrazione dello sfruttamento, cioè della ricchezza “proprietaria” e monetizzata nelle mani di èlite sempre più ristrette. Quindi, la tesi che sostiene che gli individui che compongono la classe “creativa” sono, in quanto creativi e iper-connessi, sempre più sfruttabili e sfruttati dalle grandi aziende del tecno-capitalismo globalizzato, afferma senza dubbio il vero, ma sottace qualcosa e manca di qualcos'altro. Dimentica innanzitutto di ammettere che, paradossalmente, nella classe creativa bisogna necessariamente includere tutta l'imprenditoria capitalistica. Anzi, la condizione “creativa" è una sorta di generalizzazione della condizione capitalistica, per lo meno in statu nascendi. Non a caso alcuni teorici della classe creativa parlano di “capitalismo personale”. Io parlerei a questo proposito piuttosto di “capitalismo delle relazioni”. Si tratta insomma della tendenziale estensione all'intera umanità della concezione neo-liberale dell'individuo e delle sue relazioni sociali. E sulla pervasività di tale ideologia molto si è scritto e detto. Ma non sempre si è messo in evidenza come anche la teoria della moltitudine (la versione di “sinistra” della “classe creativa”) si fondi in ultima istanza sulla medesima (storica) “antropologia”. Chi ritiene che i processi di valorizzazione siano innanzitutto processi sociali di circolazione di idee, progetti, linguaggi, saperi tecnici, legami, relazioni (circolazione di relazioni di relazioni..), per quanto sostenuto con le migliori intenzioni anti-capitalistiche, non si accorge che questi processi sono l'humus dell'impresa capitalistica. È come opporre (ancora una volta) il buono del movimento (capitalistico) al cattivo dell'istituzione (capitalistica), ma soprattutto è come opporre le cosiddette start-up alle grandi imprese già stabilizzate. Insomma, l'esaltazione delle relazioni in quanto “produttive” di valore (simbolico o economico, in questo caso non fa differenza) in questa fase storica in particolare (ma credo che il discorso possa essere con buoni argomenti generalizzato) coincide con l'esaltazione dell'humus stesso del capitalismo. Investire in relazioni è da sempre il vero start-up dell'impresa capitalistica. Uno start-up non-ancora-monetizzato, ma start-up.
Arrivo quindi alla mia tesi: è la stessa nozione di “creatività” che dovrebbe essere decostruita e/o messa in discussione. Compito estremamente complesso, per quanto a mio avviso urgente.
Non potendo svolgerlo in questa sede, sono costretto a limitare il discorso ad un punto, nello specifico alla discussione di un'aporia che, a proposito della “creatività”, risiede nel cuore della teoria marxiana della rivoluzione.

Schöpfung und Produktion (la “creazione del mondo” o la mondializzazione)
Nel 2002 Jean-Luc Nancy pubblica il suo La création du monde ou la mondialisation, che si presenta come il tentativo di pensare quella che potremmo chiamare l'aporia (marxiana) della creazione del valore. Nancy trovava che nella teoria marxiana della rivoluzione comunista ci fosse un'aporia che bisognava lavorare e tematizzare per avere la possibilità di comprendere come nel movimento reale della storia e del capitalismo fosse all'opera (per quanto nella forma dell'inoperosità) il comunismo. Bisognava comprendere come questo sviluppo storico del capitalismo fosse anche il dispiegamento delle condizioni del comunismo.
Per farlo Nancy commentava alcuni famosi passi dell'Ideologia tedesca.
(…) Ma vorrei riportare subito il famoso passo dall'Ideologia tedesca su cui si concentra Nancy:
Nella storia fino ad oggi trascorsa è certo un fatto empirico che i singoli individui, con l'allargarsi dell'attività sul piano storico universale, sono stati asserviti a un potere a loro estraneo (oppressione che essi si sono rappresentati come un dispetto del cosiddetto “Spirito del mondo” ecc.), a un potere che è diventato sempre più smisurato e che in ultima istanza si rivela come mercato mondiale. Ma è altrettanto empiricamente dimostrato che col rovesciamento dello stato attuale della società attraverso la rivoluzione comunista e la proprietà privata che con essa si identifica, questo potere così misterioso per i teorici tedeschi verrà liquidato, e allora verrà attuata la liberazione di ogni singolo individuo nella stessa misura in cui la storia si trasforma completamente in storia universale. Che la ricchezza spirituale reale dell'individuo dipenda interamente dalla ricchezza delle sue relazioni reali, è chiaro dopo quanto si è detto. Soltanto attraverso quel passo i singoli individui vengono liberati dai vari limiti nazionali e locali, posti in relazione pratica con la produzione (anche spirituale) di tutto il mondo e messi in condizione di acquistare la capacità di godere di questa produzione universale di tutto il globo (creazione degli uomini) [corsivo mio].
Nancy, mettendo in campo nozioni come quelle della ricchezza come “sfarzo” (opposta alla scambiabile ricchezza della “merce”) e del “valore dell'esser al mondo”, traduce la marxiana “ricchezza spirituale reale dell'individuo” (vedi sopra) nei termini di una ricchezza “simbolica” eccedente l'ordine mercantile-capitalistico dell'equivalenza universale (ordine derivante dalla scambiabilità delle merci con il denaro); ricchezza prodotta continuamente, “senza ragione” (calcolabile), dallo stesso “con-esser-al mondo”» degli uomini.
«Se il capitale non riesce a riassorbire integralmente nella merce questa risonanza senza ragione, – scrive Nancy – ciò significa che il capitale non si basa solo sulla merce: qualcosa precede il capitale, e questo qualcosa è la ricchezza come sfarzo, la ricchezza che non produce nuova ricchezza ma produce il suo stesso splendore, la sua opulenza come irradiazione di un senso da cui il mondo è sempre già avvolto […]. Il capitale non fa che convertire lo sfarzo in accumulazione produttiva di una ricchezza definita dalla sua stessa (ri)produttività». Si tratta quindi di due “ricchezze”, una sfarzosa e senza-ragione, l'altra derivante dallo sfruttamento capitalistico della prima. Nancy sostiene che il capitalismo non può reggersi se non sfruttando questa creatività di senso continuamente prodotta dagli individui. Sembra quindi descrivere la situazione del bio-capitalismo cognitivo delle relazioni di cui stiamo parlando. Per tale ragione anche per lui – in singolare vicinanza con i teorici della moltitudine – si tratta oggi di lottare per sottrarre allo sfruttamento capitalistico e privatistico questo “fiorire” del senso di mondo, questa creatività produttiva di senso simbolico (perché il mondo è il suo senso simbolico». È una vera e propria lotta, egli scrive, «dell'Occidente contro se stesso, o del capitale contro se stesso. È la lotta tra due infiniti, l'infinito dell'estorsione e l'infinito dell'esposizione». Una lotta che egli arriva a specificare fin nei termini di una domanda morale “quotidiana”: «in che modo ti impegni nel mondo? In che modo ti proietti verso un godimento del mondo in quanto tale e non verso la semplice appropriazione di una certa quantità di equivalenza?»
Nancy non sembra accorgersi, quindi, del fatto che proprio quella “creazione di valore simbolico” sia la produzione di quel “semilavorato” (espressione che riprendo dal testo di Formenti) sfruttabile non solo – e questo è il punto – dalle cattive grandi imprese “estorsive” del capitalismo globalizzato, ma da chiunque, essendo quella produzione di valore la “generalizzazione” della condizione start-up del capitalismo. Quando il valore consiste nella creazione di idee, simboli, linguaggi, design, tecnologie, siamo tutti nella necessità di sfruttare il lavoro degli altri fino anche a monetizzarlo. Altro che “caduta tendenziale del saggio di profitto”. Qui siamo di fronte (almeno nell'ideologia) ad un aumento esponenziale della possibilità del profitto. La pretesa contraddizione tra la “creazione di mondo” e la produzione di un “agglomerato di merci”, che per Nancy è il cuore del capitalismo, è molto più una contraddizione interna ai movimenti e alle teorie di opposizione al capitalismo. Finché si resta all'interno di una logica della “creazione di valore” (sia esso simbolico che monetario), finché si resta all'interno della nozione di produzione (sia essa di beni materiali che immateriali) ci si muove sempre all'interno di un bio-tecno-capitalismo (finanziario nella sua essenza) ormai diventato condizione di vita e di esistenza.
Bisognerebbe quindi decostruire o comunque fare i conti con il non-detto di questa nozione di “creazione-produzione” che sembra essere diventato il presupposto trascendentale di ogni discorso economico, socio-politico, antropologico.
Un compito complesso e lungo, pieno di insidie e possibili passi falsi (..)

Scommesse e azzardi
La critica all'ideologia della creatività è materialisticamente già nei fatti, nella stessa storia umana in generale, nella stessa storia recente in particolare.
Lasciando infatti sullo sfondo la realizzazione di una compiuta analisi critica e decostruttiva della nozione di “creatività” (compito troppo complesso e lungo, in generale e per il sottoscritto), vorrei limitarmi qui, in conclusione, a mostrare come l'attuale forma del capitalismo sia, nella sua essenza, finanziaria”. In questo modo sarà possibile vedere all'opera quell'impasto di creazione e (auto)distruzione che è già un primo passo decostruttivo dell'ideologia della creatività e dell'economia del win win – vale a dire dell'economia del “tutti vincono (e sono felici)” perché tutti creano quel valore che ognuno può all'occorrenza monetizzare, passando all'incasso (come in un'enorme “catena di S. Antonio”). E perché questo è anche un modo per comprendere come la de-costruzione dell'ideologia della creatività sia già da sempre all'opera nei processi materiali (del capitalismo) delle relazioni.
Il bio-tecno-capitalismo delle relazioni è “finanziario” nella sua essenza. La ragione di ciò riposa, a mio avviso, proprio sul prevalere della sfruttabilità sullo sfruttamento; consiste nel prevalere dei processi di valorizzazione su quelli di sfruttamento privatistico.
Infatti, se le relazioni sociali (per quanto su argomentato) sono indefinitamente “sfruttabili”, la loro sfruttabilità coincide con la loro “finanziarizzazione”; l'investimento in relazioni è la base del capitalismo 2.0 che vede protagoniste imprese come “Facebook” e Google. Ma la logica 2.0 pervade tutti gli ambiti del capitalismo contemporaneo, che per tale ragione è strutturalmente “finanziario”. La finanza è “creativa” sempre, perché scommette sul possibile “sfruttamento” monetario dell'immensa miniera di relazioni creative di valore su cui si fonda. Si possono così “quotare” in borsa “stili di vita” (come è il caso della Apple), “segni di appartenenza” (pensate alle società di calcio), “tendenze cool” che, in quanto tali (stili, segni, tendenze), sono di tutti e di nessuno, sono il prodotto della creatività impersonale delle relazioni sociali.
La finanza “creativa” (ed “estorsiva” ad un tempo) scommette, quindi, sul futuro sfruttamento privatistico delle relazioni sociali. Chi compra in borsa questi titoli, compra, tuttavia, soprattutto dividendi di rischio perché le relazioni per loro natura tanto possono produrre futuro profitto tanto futura perdita/catastrofe. L'economia delle “relazioni” e delle merci immateriali è per sua natura infinitamente più instabile dell'economia delle merci materiali. Investire economicamente sulle relazioni significa scommettere fino all'azzardo, tentando al contempo di gestire i rischi di tale gioco. È un gioco in cui si può vincere parecchio ma anche perdere tutto. Come ricorda Marco Dotti nel suo recente “Il calcolo dei dadi. Azzardo e vita quotidiana”, gli esperti di marketing internazionale utilizzano da tempo una disciplina, la gamification, con lo scopo di «trasformare il consumo, il lavoro, il tempo libero, la politica, la frustrazione non meno della ricreazione in “gioco”, in narrazione avvincente di sé e, di conseguenza, in simulacro del vissuto». Attraverso le tecniche della gamification da un lato si sfruttano a fini commerciali le competenze ludiche acquisite da milioni di prosumers nei giochi informatici e di rete, dall'altro si “producono” forme di vita psichicamente strutturate a “giocare” con le relazioni sociali. Il gioco così non è più vissuto come momento “separato” dalla vita quotidiana, ma è questa che si trasforma in un gioco continuo nel quale le relazioni diventano sempre più liquide e immaginarie e le possibilità della vincita e della perdita, le possibilità della salvezza e della catastrofe psichiche ed economiche sono vissute come interne al gioco stesso, come possibili “mosse” previste dal gioco e non come la “fine” reale dei gioco e dei giochi. Potremmo dire che la gamefication delle “forme di vita” normalizza l'azzardo e la possibilità del rischio reale. Rende la “perdita” una fase del gioco stesso e produce soggettività incapaci di fronteggiare le perdite e le sconfitte reali. Oggi non c'è più “tragicità” neanche nelle forme più esplicite di gioco d'azzardo. L'azzardo “tragico” richiede una forma di soggettivazione che è ormai in via di sparizione.
Ciò che resta è l'oscura dipendenza (dal gioco), una dipendenza sempre più incapace di fare i conti con il suo stesso inferno.

Per la lettura integrale e l’apparato bibliografico si rinvia kainos