di Riccardo Bellofiore
il
sistema capitalistico in tutte le sue fasi può essere considerato in stato di
crisi permanente... Dal riproporsi della tendenza al «crollo» preconizzata da
Marx non si può derivare alcuna tendenza automatica ad una politica
rivoluzionaria. Per troppo tempo, secondo Mattick, è stata sospesa la tendenza
all’impoverimento assoluto. Ma proprio il riattualizzarsi della tendenza alla
crisi non può che riaprire la possibilità di una prassi antagonistica, senza
che di essa vi sia mai certezza
(…) Le tesi di Mattick sono a prima vista
inseparabili dalla tendenza ad un crollo ineluttabile in conseguenza della
caduta tendenziale del saggio di profitto dovuta all’aumento della composizione
organica del capitale. Quando si passa dalla politica all’economia il «luxemburghiano»
Mattick scarta senza molti complimenti la teoria della crisi da realizzazione
dell’autrice dell’Accumulazione del capitale. L’insufficienza della
domanda effettiva esprime una sovraproduzione di merci per cui la crisi
deriverebbe dalla circolazione, e in fondo dall’insufficienza dei consumi, e
non invece dalla dinamica della produzione e dalla insufficienza del plusvalore
estratto dai portatori viventi della forza-lavoro, come nel Capitale.
Tesi del genere vanno innanzi tutto
bene interpretate nella loro portata. Per Mattick, Marx non si attendeva
affatto un crollo automatico, meramente economico, del capitalismo. La crisi
finale del capitalismo si può produrre solo grazie ad azioni rivoluzionarie.
Ogni crisi reale va spiegata a partire dalle condizioni concrete. Il modello di
capitalismo su cui ragiona Marx è un modello «astratto» da cui, per il suo
stesso autore, non è possibile derivare «previsioni» o conferme empiriche. Ciò
che in teoria è l’esito ultimo di una ininterrotta accumulazione del capitale
si deve presentare nella realtà come un ciclo ricorrente; ogni ciclo è, per
così dire, una replica sintetica della tendenza di lungo periodo della
espansione capitalistica. È soltanto quando la crisi capitalistica scoppia che
la teoria marxiana viene convalidata, poiché è solo in questo caso che
l’astratta analisi di valore della produzione capitalistica trova la sua
verifica osservabile: quando il capitalismo è nella fase di espansione la
caduta del saggio del profitto viene compensata da un aumento della massa dei
profitti in rapporto a una massa di capitali più cospicua.
Mentre Keynes attribuiva i problemi
dell’accumulazione ad un insufficiente incentivo ad investire, Marx le
riconduceva al carattere fondamentale della produzione in quanto produzione di
capitale. L’aumento della composizione organica è per Mattick incontestabile.
Qualunque sia la massa della forza-lavoro nel capitalismo, la massa del
capitale costante aumenta in modo sempre più rapido e la parte di forza-lavoro
che produce plusvalore si riduce relativamente sempre di più. In termini logici
ciò significa che una accumulazione sempre più rapida del capitale trasformerà
prima o poi in diminuzione assoluta la diminuzione relativa del saggio di
profitto. È solo quando ciò si verifica che la realtà corrisponde al modello di
espansione del capitale descritto da Marx.
La crisi capitalistica è
sovraproduzione di capitale esclusivamente con riferimento a un determinato
grado di sfruttamento. Mattick sa benissimo che sino a che è possibile innalzare
adeguatamente il saggio del plusvalore la caduta tendenziale del saggio del
profitto resta allo stato latente. Inoltre, il capitalismo non è un sistema
chiuso, e dunque l’aumento della composizione organica può essere rallentato
mediante l’espansione all’estero e mediante l’importazione di profitti
dall’estero. Sottolinea pure che i ricorrenti salti tecnologici sono tali che,
anche se la composizione organica del capitale può rimanere la stessa in
termini materiali, essa può diminuire in termini di valore: un «aggiustamento»
che aumenta la profittabilità dei capitali. La stessa crisi capitalistica,
scrive, è una «causa antagonistica», così come lo è ogni fenomeno concreto che
aumenta il plusvalore dei capitali investiti o ne riduce il valore in rapporto al
plusvalore disponibile. Di più, l’incremento della produttività fa crescere i
valori d’uso (mezzi di produzione e beni salario) che permettono la messa in
moto di più lavoratori nella produzione. La crescente composizione organica del
capitale non ridurrà l’effettivo saggio del profitto finché il capitale si
accumula più rapidamente di quanto non diminuisca lo stesso saggio del profitto(...)
Crisi
permanente
Il ragionamento di Mattick è di
estremo rigore. Pure, non convince in alcuni punti essenziali. Innanzi tutto
per quel che riguarda la validità della teoria della caduta del saggio del
profitto nella sua formulazione classica, in forza di un aumento della
composizione organica del capitale. In realtà, ad essere rilevante è la
composizione in valore del capitale, cioè l’espressione in valore degli
elementi del capitale costante rispetto all’espressione in valore degli
elementi del capitale variabile (come indice del lavoro vivo che la forza
lavoro acquistata dal salario potrà mettere in moto). La dinamica nel tempo
della composizione organica rappresenta la composizione in valore nella misura
in cui il suo andamento segue quello della composizione tecnica del capitale
(il rapporto «fisico» mezzi di produzione/lavoratori). È evidente che –
assumendo, con Marx, la meccanizzazione/automazione come forma prevalente del
progresso tecnico – la composizione organica dovrà per forza di cose aumentare.
È come valutare mezzi di produzione e beni salario ai prezzi precedenti le
innovazioni capitalistiche, senza tenere conto di quella «svalorizzazione»
delle merci e della stessa forza-lavoro che è esito della «lotta di
concorrenza» tra i molti capitali. Per il saggio del profitto è però
significativa la composizione in valore del capitale, quella che tiene conto
degli effetti delle innovazioni sul sistema dei prezzi.
Tenendo conto di ciò, è perfettamente
concepibile che l’aumento del saggio del plusvalore (con i suoi effetti
positivi sul saggio del profitto) sopravanzi sistematicamente l’aumento della
composizione in valore (con i suoi effetti negativi sul medesimo). Anche nel
caso estremo di una forza-lavoro che vive d’aria e lavora ventiquattro ore, il
saggio del profitto – che raggiunge a questo punto il suo livello massimo, pari
all’inverso del rapporto capitale costante/espressione monetaria del tempo di
lavoro vivo – non ha alcuna tendenza necessaria a decrescere nel tempo. Non è
infatti possibile escludere che il denominatore diminuisca per la
«svalorizzazione» del capitale costante. Non si capisce come Mattick, pur
avendo squadernato tutti gli elementi per una conclusione del genere, possa non
trarla.
Un secondo punto riguarda l’erroneità
della conclusione di Mattick che le crisi da sproporzione o da domanda
effettiva siano sempre espressione di contraddizioni sul piano «superficiale»
della circolazione. Le cose stanno altrimenti. Nel Capitale, Marx afferma la
tendenza ad una caduta relativa del valore della forza lavoro. Si tratta
dell’altra faccia della tendenza sistematica all’estrazione di plusvalore
relativo. Il punto è stato riaffermato da Rosa Luxemburg. Le innovazioni
capitalistiche aumentano la forza produttiva del lavoro. Si riduce il lavoro contenuto
nel valore della forza lavoro, anche con un salario reale crescente. Cresce
perciò la quota del neovalore prodotto che va ai capitalisti, o comunque alle
classi dominanti: il pluslavoro nella forma del plusvalore. Sono gli stessi
investimenti innovativi a determinare, insieme la riduzione relativa della
quota del salario e a modificare i rapporti di scambio tra i settori. È insomma
la dinamica stessa della produzione di capitale a dare luogo a quelle
sproporzioni che possono facilmente diventare sovrapproduzione generale di
merci, crisi da realizzazione. Quando l’eccesso di offerta si verifica in
settori significativi, le imprese in perdita cesseranno di investire e
licenzieranno. Cadrà la domanda che si rivolge alle altre industrie, e
l’eccesso di offerta contagerà un settore dopo l’altro, sino a diventare
ingorgo generale sul mercato delle merci.
Un terzo punto riguarda Keynes.
Mattick trascura che l’aumento della spesa pubblica dà luogo, in conseguenza
degli acquisti diretti, e poi del loro effetto moltiplicativo, ad un aumento
del tempo di lavoro produttivo (di plusvalore) effettivamente comandato dal
capitale, che è produzione di capitale che altrimenti non si darebbe.
Quell’aumento della domanda e della produzione darà luogo, di rimbalzo, ad un effetto
di accelerazione dell’investimento capitalistico, ad ulteriore produzione di
capitale: la ragione è che l’aumento della utilizzazione della capacità
produttiva, se prolungato nel tempo, può indurre le imprese a dotarsi di nuova
capacità produttiva.
Male si farebbe però a non vedere
l’importanza essenziale della riflessione di Mattick, scartandone troppo
velocemente le conclusioni. Mattick vede bene un punto chiave. La teoria della
crisi di Marx non è separabile dalla tendenza della caduta tendenziale del
saggio del profitto: anche se questo legame si dà in modo più articolato di
quanto Mattick stesso non intenda. In realtà, a me pare, la caduta tendenziale
del saggio di profitto va letta come una meta-teoria delle crisi, che si
prolunga in una lettura diacronica delle «grandi crisi» capitalistiche. La
caduta tendenziale del saggio di profitto nella sua forma classica è
all’origine della Lunga Depressione di fine Ottocento. Fu proprio la
controtendenza all’aumento della composizione del capitale e alla caduta
tendenziale del saggio di profitto – controtendenza che si sostanziò in un
«progresso» tecnico e organizzativo che svalorizzò capitale costante e
variabile, e spinse verso l’alto il saggio di plusvalore – a determinare le
condizioni che portarono al Grande Crollo degli anni Trenta per una
insufficienza sistematica di domanda effettiva. Ad una grande crisi per
insufficienza di profittabilità seguì dunque una grande crisi per eccesso di
profittabilità.
Qui interviene un altro punto su cui
Mattick è del tutto convincente. La risposta keynesiana al Grande Crollo degli
anni Trenta determinò il pieno impiego grazie, non soltanto alla banca centrale
come prestatrice di ultima istanza, ma anche e soprattutto ad un intervento
statale di sostegno di una domanda «generica» di merci (e alla spesa militare).
Ciò si incarnò, in modo significativo, in spese «improduttive» – un punto
cruciale anche per l’elaborazione di Sweezy e del gruppo della «Monthly
Review». Si accentuò in questo modo la dipendenza dello sviluppo capitalistico
da una estrazione di plusvalore, secondo un saggio di sfruttamento crescente,
nell’area che produce (plus)valore. Di nuovo, dunque, una grande crisi per
insufficiente profittabilità: la Grande Stagflazione. Ciò che la determinò fu
questa volta non un aumento della composizione in valore del capitale, ma
l’antagonismo sulla estrazione di lavoro vivo. La crisi si dava direttamente
nel processo immediato di valorizzazione, metteva in questione lo stesso
rapporto di capitale.
Di questa vera e propria Crisi
sociale i due grandi antagonisti di cui trattiamo in queste pagine, Sweezy e
Mattick, non vedono appieno i termini, intrappolati l’uno nel discorso sulla
crisi da realizzazione, l’altro nel discorso sulla caduta del saggio del
profitto: entrambi discorsi troppo «semplici». Ma l’uno e l’altro vanno
integrati in un discorso più ampio sulla crisi capitalistica.
Conclusioni
È soltanto su questo sfondo che si
può intendere quello che viene dopo, la nuova grande crisi che stiamo vivendo:
a partire da Sweezy e Mattick, ma andando oltre Sweezy e Mattick. La risposta del capitale alla crisi degli
anni Settanta si è mossa su due gambe. Da un lato, la frantumazione del lavoro,
cioè la precarizzazione nel mercato e nel processo di lavoro, la concorrenza
aggressiva dei global player che determina sovra-capacità, la centralizzazione
senza concentrazione, il trasformarsi della struttura produttiva verso un
capitalismo di imprese modulari articolate in rete. È un mondo di catene
transnazionali della produzione, di delocalizzazioni e in-house-outsourcing, di
lavoro migrante e sempre più «femminile». Dall’altro lato, abbiamo la
finanziarizzazione. Favorita dalla globalizzazione dei capitali e dai cambi
flessibili, e dalla conseguente incertezza, il rinnovato primato della finanza
ha preso la forma di un money manager
capitalism, di un «capitalismo dei fondi», che ha fatto esplodere il debito
privato, e in particolare il debito al consumo, grazie ad una inflazione dei
prezzi delle attività finanziarie che è fuori dall’orizzonte dei due pensatori
qui considerati (ne ha scritto in importanti lavori JanToporowski). Questa
nuova finanziarizzazione altro non è che una autentica «sussunzione reale del
lavoro alla finanza» (ai mercati finanziari e alle banche). Essa non solo ha
incluso le «famiglie» in modo subalterno. Essa ha anche, da un lato, accelerato
la decostruzione del lavoro per mille vie, incidendo potentemente sui processi
capitalistici di lavoro, dall’altro stimolato una domanda effettiva manovrata
politicamente. Una sorta di paradossale «keynesismo privatizzato» di natura
finanziaria.
Il capitale fittizio ha avuto
conseguenze tutto meno che fittizie. Ha approfondito lo sfruttamento nei luoghi
di lavoro, con una simbiosi di estrazione di plusvalore relativo e assoluto; e
ha creato le condizioni della sua realizzazione sul mercato. Un mondo che non è
compreso dallo stagnazionismo sottoconsumistico, o dalla caduta del saggio del
profitto nei suoi termini tradizionali. La crisi possibile è stata a lungo posposta
grazie a politiche monetarie di grande attivismo (la banca centrale come
prestatrice «di prima istanza»), che hanno innescato a ripetizione bolle
speculative nei mercati finanziari o sugli immobili. La crescita del valore
delle «attività» ha spinto verso l’alto la domanda interna nell’area del
capitalismo anglosassone grazie al consumo indebitato, consentendo ad altre
aree di praticare politiche «neo-mercantiliste», cioè di crescere grazie al
traino delle esportazioni nette. Il mondo del lavoro è stato ovunque consegnato
all’insicurezza, su di lui si sono scaricati rischi e margini di aggiustamento.
Un meccanismo dall’instabilità repressa, ed un capitalismo insostenibile, in
cui è riemersa in forme nuove e violente la tendenza alla crisi sistemica del capitale.
A ben vedere, prima inclusi dal
neoliberismo e poi messi a rischio dalla sua crisi, sono stati, e sono, non
soltanto il consumo e il risparmio. Sono stati anche, e sono, in un elenco
tutto meno che esaustivo, abitazioni, istruzione, pensioni, sanità, lavoro di
cura. Prosegue intanto l’abbattimento del salario e la dilatazione del tempo di
lavoro, l’aggressione al corpo e alla vita dei lavoratori e delle lavoratrici,
sino alla spoliazione della stessa natura. In una parola, in gioco sono ormai
le condizioni di esistenza e riproduzione degli esseri umani nella loro
integralità. Per questo la nuova crisi sistemica ci squaderna davanti
l’esigenza, ma anche il compito, di una «socializzazione» della banca e della
finanza, dell’investimento, dell’occupazione, per provvedere diversamente ai
bisogni sociali. Una socializzazione che non può essere scissa da una rimessa
in questione del modo della produzione, delle condizioni del lavoro come
attività, del «cosa, come e quanto» produrre, in un orizzonte che non può che
andare oltre l’orizzonte capitalistico, e contestare l’illusione di un «ritorno
a Keynes».
In questo senso, mi pare, il richiamo
di Mattick all’alternativa luxemburghiana «socialismo o barbarie» rimane più
attuale che mai.
* estratto dalla seconda parte della pubblicazione
Tra Schumpeter e Keynes: L’eterodossia di
Paul Marlor Sweezy e L’ortodossia di Paul Mattick, apparsa sulla pagina https://www.facebook.com/pages/Economisti-di-classe-Riccardo-Bellofiore-Giovanna-Vertova/148198901904582?fref=ts.
Il testo originale è contenuto nel terzo
volume L’Altronovecento. Comunismo
eretico e pensiero critico. Il capitalismo americano e i suoi critici (a cura
di Pier Paolo Poggio), Edizioni Jaca Book.
Ci scusiamo con l’autore per la ns. estrema
sintesi e rinviamo i lettori al testo completo sopra linkato che è preceduto
dalla prima parte dedicata a Paul Marlor Sweezy consultabile nel post della
stessa pagina facebook “Economisti di classe”