di Slavoj Žižek
Nella sua prefazione a Per la critica dell’economia politica, Marx scriveva (nel suo peggiore modo
evoluzionista) che l’umanità si propone solo i problemi che sia in grado di
risolvere. E se invertissimo questa frase e dichiarassimo che, come regola
generale, l’umanità si propone solo i problemi che non possono essere risolti,
e quindi mette in moto un processo il cui sviluppo è imprevedibile, e nel corso
del quale lo stesso obiettivo viene ridefinito?
Nei suoi primi scritti, Marx descrive la situazione in
Germania come una di quelle situazioni in cui l’unica risposta a problemi
specifici sarebbe una soluzione universale: la rivoluzione globale. È
l’espressione condensata della differenza tra un periodo riformista e un
periodo rivoluzionario: in un periodo riformista, la rivoluzione globale resta
come un sogno che, se serve a qualcosa, è solo per dare peso a tentativi di
cambiare qualcosa a livello locale; in un periodo rivoluzionario, si vede
chiaramente che niente migliorerà senza un cambiamento globale radicale. In
questo senso puramente formale, il 1990 è stato un anno rivoluzionario: le
molte riforme parziali negli stati comunisti non avrebbero mai risolto i
problemi; ed è stato necessario un crollo totale, per risolvere tutti i
problemi della vita di tutti i giorni. Per esempio, il problema di dare cibo
sufficiente alle persone.
A che punto siamo oggi, quanto a questa differenza? I
problemi e le proteste degli ultimi anni sono i segnali che una crisi globale
si avvicina, o sono solo piccoli ostacoli che si possono affrontare con
interventi locali? Il fatto più notevole di queste eruzioni è che stanno
avvenendo non solo, né principalmente, nei punti deboli del sistema, ma nei
punti che finora erano stati percepiti come storie di successo. Noi sappiamo
perché le persone stanno protestando in Grecia o in Spagna, ma perché ci sono
proteste nei paesi ricchi e in rapido sviluppo come la Turchia, il Brasile o la
Svezia?
Con un pò di distanza, si può vedere che la rivoluzione di
Khomeini nel 1979 è stato il caso originale di “Trouble in Paradise”, dato che
è accaduta in un paese che camminava a passi rapidi verso la modernizzazione
filo-occidentale, ed era l’alleato più stabile dell’occidente nella regione.
Prima dell’attuale ondata di proteste, la Turchia era forte:
modello ideale di stato stabile, che combinava una emergente economia liberale
con un islamismo moderato. Pronta per l’Europa, un gradito contrasto con la
Grecia più “europea’” perduta in un labirinto ideologico e incamminata verso
l’autodistruzione economica. Sì, è vero: qui e là sempre si vedevano spuntare
alcuni segnali negativi (la Turchia ha sempre negato l’olocausto degli armeni;
l’incarcerazione di giornalisti, lo status irrisolto dei curdi; gli appelli a
una “grande Turchia” che avrebbe resuscitato la tradizione dell’Impero
Ottomano; l’imposizione, in una occasione o l’altra, di leggi religiose). Ma
questi fatti erano liquidati come difetti minori che non compromettevano
l’immagine grande.
E poi sono scoppiate le proteste in piazza Taksim. Non c’è
chi non sappia che i piani per trasformare un parco intorno a piazza Taksim,
nel centro di Istanbul, in un centro commerciale non sono stati il “caso” che
ha scatenato quelle proteste; e che un malessere molto più profondo prendeva
forza. Lo stesso si deve dire delle proteste di metà giugno in Brasile: sono
state scatenate da un piccolo aumento del biglietto del trasporto pubblico, e
sono continuate anche dopo che l’aumento è stato revocato. Anche in questo
caso, le proteste sono scoppiate in un paese che – almeno secondo i media – era
in pieno boom economico e con tutte le ragioni per sentirsi fiducioso sul
futuro. In questo caso, le proteste sono state apparentemente sostenute dalla
presidente Dilma Rousseff, che se ne è dichiarata assolutamente soddisfatta.
Ciò che
accomuna le proteste in tutto il mondo – per quanto diverse siano in apparenza
– è che tutti reagiscono contro diversi aspetti della globalizzazione
capitalistica
È crucialmente importante che noi non vediamo le proteste
turche meramente come una società civile laica turca che insorge contro un
regime islamico autoritario, sostenuto da una maggioranza islamista silenziosa.
Ciò che complica il quadro è l’impeto anticapitalista delle proteste. I
manifestanti sentono intuitivamente che il fondamentalismo di mercato e il
fondamentalismo islamico non si escludono a vicenda.
La privatizzazione dello spazio pubblico attraverso l’azione
di un governo islamista mostra come le due forme di fondamentalismo possono
lavorare mano nella mano. È un chiaro segno che il matrimonio “per l’eternità”
tra democrazia e capitalismo è già avviato verso il divorzio.
È anche importante riconoscere che i manifestanti non mirano
a un qualsiasi obiettivo “reale” identificabile. Le proteste non sono
“realmente”, contro il capitalismo globale, né “realmente” contro il
fondamentalismo religioso, non “realmente” in favore delle libertà civili e
della democrazia, né cercano “realmente” qualunque altra cosa specifica. Ciò
che la maggior parte di coloro che hanno partecipato alle proteste “sa” è un
malessere, una insoddisfazione fluida, che sostiene e unisce varie esigenze
specifiche.
La lotta per capire le proteste non è solo lotta
epistemologica con giornalisti e teorici che cercano di spiegare il suo
contenuto “reale”: è anche una lotta ontologica sulla cosa in sé, su ciò che
sta accadendo all’interno delle stesse proteste. È solo una lotta contro un
governo corrotto? Contro il governo islamico autoritario? Contro la
privatizzazione dello spazio pubblico? La domanda rimane aperta. E da come si
risponde dipenderà l’esito di un processo politico in corso.
Nel 2011, quando facevano irruzione proteste in tutta Europa
e in tutto il Medio Oriente, molti insistevano che non fossero trattate come
istanze di un unico movimento globale. Al contrario, costoro affermavano, ci
sarebbe stata una risposta specifica per ogni situazione specifica. In Egitto,
i manifestanti volevano quello che in altri paesi era stato il bersaglio di
critiche da parte del movimento Occupy: “democrazia” e “libertà”. E anche tra
paesi mussulmani ci sarebbero state differenze cruciali: la primavera araba in
Egitto sarebbe stata contro un regime autoritario e corrotto alleato
dell’Occidente; la Rivoluzione Verde in Iran, che ha avuto inizio nel 2009,
sarebbe stata contro l’Islam autoritario. È facile vedere quanto questa
particolarizzazione delle proteste serva ai difensori dello status quo: non vi
è alcuna minaccia diretta all'ordine globale come tale. Solo una serie di
problemi locali separati …
Il capitalismo globale è un processo complesso che colpisce
diversi paesi, in modi diversi. Ciò che unisce tutte le proteste per quanto
sfaccettate siano, è che tutti reagiscono contro diverse sfaccettature della
globalizzazione capitalista. La tendenza generale del capitalismo globale è
oggi espandere il mercato, e invadere e accerchiare lo spazio pubblico, ridurre
i servizi pubblici (sanità, istruzione, cultura) e imporre sempre più
saldamente un potere politico autoritario. In questo contesto, i greci stanno
protestando contro il comando del capitale finanziario internazionale e contro
il loro proprio Stato inefficiente e corrotto, sempre meno in grado di fornire
servizi sociali di base. In questo contesto, i turchi protestano contro la
commercializzazione dello spazio pubblico e contro l’autoritarismo religiosa. E
gli egiziani protestano contro un governo sostenuto dalle potenze occidentali.
E gli iraniani protestano contro la corruzione e il fondamentalismo religioso.
E così via.
Nessuna di queste proteste può essere ridotto a una singola
questione. Tutti si occupano di una specifica combinazione di almeno due
problemi, uno economico (dalla corruzione all’inefficienza dello stesso
capitalismo), l’altro politico-ideologico (dalla richiesta di democrazia alla
richiesta della fine della tradizionale democrazia multipartitica). Lo stesso
vale per il movimento Occupy. Nella profusione di dichiarazioni (spesso
confuse), il movimento mantiene due tratti fondamentali: in primo luogo, il
malcontento verso il capitalismo come sistema, non solo contro un corrotto o
l’altro o corruzioni locali; in secondo luogo, la consapevolezza che la forma
istituzionalizzata di democrazia multipartitica non ha i mezzi per combattere
gli eccessi del capitalismo. In altre parole, bisogna reinventare la
democrazia.
Che la causa di fondo delle proteste sia il capitalismo
globale non significa che l’unica soluzione sia quella di “rovesciare” il
capitalismo. Né è possibile seguire l’alternativa pragmatica, che implica
affrontare singoli problemi in attesa mentre si aspetta una trasformazione
radicale. Questa idea ignora il fatto che il capitalismo globale è
necessariamente contraddittorio e incoerente: la libertà di mercato va mano
nella mano con gli Stati Uniti che proteggono la propria produzione
agro-alimentare e agro-commerciale; predicare la democrazia va mano nella mano
con il sostegno al governo dell’Arabia Saudita.
Questa incoerenza apre uno spazio per l’intervento politico:
quando il capitalista globale è costretto a violare le sue proprie regole, lì
vi è l’opportunità di insistere perché invece obbedisca a quelle regole.
Esigere coerenza su punti strategicamente selezionati nei quali il sistema non
può permettersi di pagare per essere coerente vuol dire mettere sotto pressione
l’intero sistema. L’arte della politica sta nell'imporre richieste specifiche
che, mentre esse sono perfettamente realistiche, colpiscono il cuore
dell’ideologia egemonica ed implicano cambiamenti molto più radicali. Queste
richieste, anche se sono valide e legittime, sono, di fatto, impossibile. Caso
esemplare è la proposta di Obama di fornire assistenza sanitaria pubblica
universale. Per questo le reazioni sono state così violente.
Un movimento politico inizia con un’idea, qualcosa per cui
lottare, ma nel tempo,l’idea subisce profonde trasformazioni – non
semplicemente un accomodamento tattico, ma una ridefinizione essenziale –
perché l’idea stessa diventa parte del processo: essa diventa sovra determinata
(abbiamo utilizzato la nota a piè di
pagina di Žižek come incipit
dell’articolo,ndr). Diciamo che una rivolta inizia con una domanda
di giustizia, magari sotto forma di rifiuto di una determinata legge. Dopo che
il popolo si è profondamente impegnato nella rivolta, si rende conto che ci
vorrà molto di più della domanda iniziale, perché ci sia una vera giustizia. Il
problema allora è quello di definire, precisamente, in che consiste questo
“molto di più”.
La prospettiva liberal-pragmatica pensa che i problemi
possono essere risolti gradualmente, uno per uno: “Ci sono ora persone che
muoiono in Ruanda, allora lasciamo perdere la lotta antimperialista e andiamo a
impedire il massacro”. Oppure: “Dobbiamo combattere la povertà e il razzismo,
qui e ora, non aspettare il crollo dell’ordine capitalistico mondiale”. John
Caputo sostiene esattamente questo in After the Death of God (2007):
Sarei perfettamente felice se i politici di estrema sinistra
negli Stati Uniti fossero in grado di riformare il sistema fornendo assistenza
sanitaria universale, redistribuendo effettivamente la ricchezza in modo più
equo, con un sistema fiscale ridefinito, limitando i finanziamenti privati alle
campagne elettorali, consentendo il suffragio universale per tutti, trattando
con umanità i lavoratori migranti, e conducendo una politica estera
multilaterale che integri il potere degli Stati Uniti all'interno della
comunità internazionale, ecc. Vale a dire, intervenendo sul capitalismo
attraverso profonde riforme, a lungo raggio … Se dopo che si fosse fatto tutto
questo, Badiou e Žižek ancora si lamentassero che un mostro chiamato
Capitalismo ci perseguita, sarei incline ad accogliere un tale mostro con uno
sbadiglio.
Non si
tratta di “rovesciare” il capitalismo. Ma di costruire logiche di una società
che va al di là di esso. Questo include nuove forme di democrazia
Il problema qui non è la conclusione di Caputo: se si può
ottenere tutto questo all’interno del capitalismo, perché non stare proprio lì?
Il problema è il presupposto di fondo per cui è possibile ottenere tutto questo
nel capitalismo globale nella sua forma attuale. Ma se l' incattivimento e il
cattivo funzionamento del capitalismo, che Caputo elenca, non fossero semplici
guai contingenti, ma meccanismi necessari per far funzionare la struttura? E se
il sogno di Caputo fosse il sogno di un ordine universale capitalista, senza
disturbi, senza i punti critici nei quali la sua “verità repressa” mostra la
sua faccia?
Proteste e rivolte di oggi sono sostenute dalla combinazione
di richieste sovrapposte, e lì sta la loro forza: lottano per la democrazia
(“normale”, parlamentare) contro regimi autoritari; contro il razzismo e il
sessismo, soprattutto quando sono diretti contro gli immigrati e i rifugiati;
contro la corruzione nella politica e negli affari (inquinamento industriale dell’ambiente,
ecc.); per lo stato sociale contro il neoliberismo; e per nuove forme di
democrazia che vadano oltre i rituali multipartitici. Mettono in discussione
anche il sistema capitalista globale in quanto tale, e cercano di tenere viva
l’idea di una società che vada oltre il capitalismo.
Due trappole vi sono, lì, da evitare: il falso radicalismo
(“ciò che conta davvero è abolire il capitalismo liberale-parlamentare, tutti
le altre lotte sono secondarie”), ma anche il falso gradualismo (“in questo
momento abbiamo dobbiamo lottare contro la dittatura militare e per una
democrazia minima, tutti i sogni di socialismo ora devono essere messi da
parte”).
Qui, nessuno dovrebbe vergognarsi di mettere in pratica la
distinzione maoista tra antagonismo principale e antagonismi secondari, tra
quelli che contano in prospettiva, e quelli che dominano oggi. Ci sono
situazioni in cui insistere sull’antagonismo principale significa perdere
l’opportunità di dare un colpo significativo, nel corso della lotta.
Solo una politica che tenga pienamente conto della
complessità della sovradeterminazione merita il nome di strategia. Quando si
intraprende una lotta specifica, la domanda chiave è: come il nostro impegno o
disimpegno in questa lotta colpisce altre lotte?
La regola generale è che quando una rivolta contro un regime
di semi-democratico inizia – come in Medio Oriente nel 2011 – è facile
mobilitare grandi folle con degli slogan (per la democrazia, contro la
corruzione, ecc.). Ma ben presto ci troviamo ad affrontare scelte molto più
difficili. Quando la rivolta ha successo e raggiunge l’obiettivo iniziale, ci
rendiamo conto che ciò che veramente ci turbava (la mancanza di libertà,
l’umiliazione quotidiana, la corruzione, scarso o nessun futuro) persiste sotto
una nuova veste. In quel momento siamo costretti a vedere che qualcosa mancava
nello stesso obiettivo iniziale. Può implicare che si arrivi a vedere che la
democrazia può essere una forma di de-libertà, o che si può esigere molto più
di una mera democrazia politica: che anche la vita sociale ed economica deve
essere democratizzata.
In sostanza, ciò che a prima vista prendiamo come un
fallimento, l’aver raggiunto solo un principio nobile (la libertà democratica),
è in ultima analisi percepito come un fallimento insito nel principio stesso.
Questa scoperta – che il principio per il quale lottiamo può essere
intrinsecamente viziato – è un grande passo in qualunque educazione politica.
I rappresentanti della ideologia dominante mobilitano tutto
il loro arsenale per evitare che giungiamo a questa conclusione radicale. Ci
dicono che la libertà democratica comporta le sue proprie responsabilità, che
ha un prezzo, che è un segno di immaturità aspettarsi troppo dalla democrazia.
In una società libera, dicono, dobbiamo agire come capitalisti e investire
nella nostra vita: se falliamo, se non riusciamo a fare i sacrifici necessari,
o se in qualche modo non siamo all’altezza, è colpa nostra.
In senso politico più diretto, gli Stati Uniti perseguono
coerentemente una strategia di controllo dei danni nella loro politica estera,
ricanalizzando le rivolte popolari verso forme capitaliste-parlamentari
accettabili: in Sud Africa dopo l’apartheid; nelle Filippine, dopo la caduta di
Marcos; in Indonesia dopo Suharto ecc. Qui è dove la politica propriamente
detta inizia: la questione è come spingere ancora più in là, dopo aver superato
la prima, emozionante ondata di cambiamento, come fare il passo successivo,
senza cedere alla tentazione “totalitaria”, come muoversi al di là di Mandela
senza andare verso Mugabe.
E che significherebbe questo, nel caso concreto? Mettiamo a
confronto due paesi vicini, Grecia e Turchia. A prima vista, possono sembrare
completamente differenti: la Grecia, intrappolata nella rovinosa politica
dell’austerità; la Turchia in pieno boom che emerge come nuova superpotenza
regionale. Ma se ogni Turchia contenesse una sua propria Grecia, le sue proprie
isole di miseria? Come dice Brecht nella sue Elegie di Hollywood (orig. Hollywood
Elegie ‘[1942]),
Il villaggio di
Hollywood è stato progettato secondo l’idea
Che la gente qui sarebbe stata proprietaria di azioni di paradiso. Lì,
Si sono resi conto che Dio
Anche avendo bisogno del cielo e dell’inferno, non aveva bisogno
Di pianificare due stabilimenti, ma
Solo uno: il paradiso. Che esso,
per i poveri e sfortunati, funziona
come l'inferno. [1]
Che la gente qui sarebbe stata proprietaria di azioni di paradiso. Lì,
Si sono resi conto che Dio
Anche avendo bisogno del cielo e dell’inferno, non aveva bisogno
Di pianificare due stabilimenti, ma
Solo uno: il paradiso. Che esso,
per i poveri e sfortunati, funziona
come l'inferno. [1]
Questi versi descrivono abbastanza bene il “villaggio
globale” di oggi: si applicano al Qatar o a Dubai, playgrounds per i ricchi,
che dipendono dal mantenimento dei lavoratori immigrati in uno stato di
semi-schiavitù, o di schiavitù. Un esame più attento rivela somiglianze tra la
Turchia e la Grecia: privatizzazioni, la chiusura dello spazio pubblico, lo
smantellamento dei servizi sociali, l’ascesa di politici autoritari. Su un
piano elementare, quelli che protestano in Grecia e quelli che protestano in
Turchia sono impegnati nella stessa lotta. La cosa migliore può essere quella
di coordinare le due lotte, respingere le tentazioni “patriottiche”, lasciarsi
alle spalle la storica inimicizia tra i due paesi e cercare spazi di
solidarietà. Il futuro delle proteste può dipendere da questo.
[1] Non abbiamo il testo in italiano. La
traduzione vuole solo aiutare la lettura.
Pubblicato dalla London Review of
Books
e tradotto in portoghese dal sito brasiliano outraspalavras.net. (La traduzione dal
portoghese è di democraziakmzero)