venerdì 5 luglio 2013

Crisi economica mondiale, movimento sociale e socialismo

di Robert Kurz

riprendiamo parte delle 12 tesi della comunicazione presentata da Kurz nella Conferenza del Forum Marxista della Sassonia (Nov,2009), estrapolando quelle che pongono l’attenzione sul futuro della sinistra e specificamente sull’orizzonte illusorio che gioca ancora l’ideologia lavorista. La crisi  che stiamo attraversando incalzava inesorabilmente e già da allora era chiaro che i mezzi “ordinari” offerti dal paradigma economico sarebbe stati del tutto inadeguati. Tutti simulavano, da destra consapevolmente e a sinistra con qualche convinzione (basti considerare l’attuale governo-Letta), che bastasse mettere in atto i meccanismi di regolazione per risolvere la nuova crisi finanziaria mondiale. Possiamo ribadire con Kurz che «l’ambita ri-regolamentazione non si avvia venendo al contrario differita a un tempo immaginario “dopo la crisi” »

Un’analisi puramente fenomenologica della crisi economica mondiale già mostra che le sue cause non vengono eliminate dalle manovre di recupero finora adottate. Un’analisi storica che vada più a fondo può dimostrare che queste cause risalgono agli anni ottanta del secolo scorso. Dopo che si è esaurita la dinamica di accumulazione fordista del dopoguerra, non si è concretizzato l’atteso potenziale di valorizzazione reale nelle nuove aree tecnologiche (tecnologie dell’informazione, biotecnologia etc.). Il tentativo di rimandare i problemi della valorizzazione, in primo luogo attraverso il consumo pubblico, è fallito traducendosi in inflazione. La politica neo-liberale di deregolamentazione si è limitata a trasferire il problema dal credito pubblico ai mercati finanziari transnazionali. Si sono così formate le celebri bolle finanziarie che, per più di due decenni, sono parse generare un’accumulazione virtuale, insostanziale.  (…) La nuova crisi finanziaria mondiale è la prima globale e non può più essere contenuta con i mezzi abituali. Il modello ufficiale di spiegazione si riduce a designare come “errore storico” la deregolamentazione neoliberale e a ridurre la crisi agli "eccessi" dei banchieri nel cielo finanziario che poi, infelicemente, si sarebbero ripercossi in un’”economia reale” sana. In realtà si è verificato esattamente il contrario. (…) Poiché il criterio di spiegazione è falso, anche l’ambita ri-regolamentazione non si avvia venendo al contrario differita a un tempo immaginario “dopo la crisi”. Non esiste alcuna "accumulazione reale" sana e la sua dinamica, da molto tempo esaurita, può essere prorogata solo attraverso dei precari programmi di simulazione, in cui le bolle finanziarie possibili dopo lo shock della svalutazione non hanno più forza per il riciclaggio in una nuova congiuntura del deficit,  e in cui il credito pubblico incontra i suoi limiti già nel breve periodo.  Sta in questo contesto  il peggiore errore di gran parte della sinistra. Anche prima del fallimento globale, i movimenti di critica della globalizzazione e la sinistra politica, causa una “critica ridotta del capitalismo”, hanno perlopiù accusato la speculazione finanziaria delle manifestazioni sociali ed economiche della crisi, ponendo così a testa in giù la relazione tra causa ed effetto. Pertanto, non è la sinistra che segue qui il falso modello di spiegazione dell’opinione pubblica borghese; al contrario, è quest’ultima che pesca il suo modello di spiegazione nel mainstream della sinistra.

(…) Il nocciolo del problema è  la categoria di lavoro astratto, definita da Marx in modo chiaramente negativo, ma che fu  legata a un’ontologia del lavoro positiva nella tradizione marxista. Così interpretato, "il lavoro" non emergerebbe come astrazione reale specificamente capitalista, ma la sostanza del capitale, che è il lavoro, costituirebbe allo stesso tempo l’eterna condizione umana. Stando così le cose, il lavoro sarebbe naturalmente inesauribile.  Questo  significava, per  la teoria della crisi, che era impensabile un limite interno della sostanza della valorizzazione, venendo così la crisi definita solo ad un livello di metamorfosi e sproporzionalità nella circolazione del capitale; come notoriamente la cosiddetta "crisi di pulizia", che ricompone soltanto l’equilibrio perturbato della riproduzione capitalista. La stessa nuova crisi mondiale è percepita in questo modo, e qui si basa in ultima analisi la sintonia con l’orizzonte d’aspettativa borghese. Da qui risulta anche un’opzione di azione che pretende solo di assumere influenza sulla ristrutturazione del processo di accumulazione, il quale rimane presupposto, ritenendo esclusa la possibilità di un suo esaurimento storico.

Così la sinistra si trova in una sintonia con una coscienza di massa assolutamente equivoca e insostenibile nella realtà, coscienza, questa, che rimane passiva e senza forza di mobilitazione. L’interiorizzazione delle categorie capitalistiche come condizioni di vita non indagate ha già fatto un lungo percorso. Il movimento operaio classico, fissando i suoi obiettivi, si manteneva sul terreno della forma d’essere capitalista, e fece della sostanza di questo essere,  il lavoro astratto, la base della sua legittimazione. Ma questa autolegittimazione si ruppe con la terza rivoluzione industriale. Il declino globale della classe operaia creatrice di plusvalore è solo il rovescio della crisi sostanziale del capitale. I settori dell’esportazione cinese non costituiscono alcuna controprova quantitativa, perché non hanno come punto di partenza qualsiasi produzione reale di plusvalore, ma sono stati generati solamente dalle bolle finanziarie a partire dagli anni ’90. Pertanto, l’invocazione di una “coscienza di classe” basta sulla creazione di plusvalore cade nel vuoto. Il "lavoro" ha perduto la sua pretesa sicurezza ontologica. Esso è screditato, tanto relativamente alla scomparsa della quantità produttiva di capitale, quanto anche a causa del suo carattere sempre più distruttivo e non più fondato sui contenuti delle necessità vitali, e ancora a causa della sua precarizzazione. Un’espressione di questo discredito è lo slogan ufficiale “qualsiasi impiego è meglio di niente”, inscritto nella coscienza delle masse  sotto l’ontologia del lavoro. Da qui deriva l’attesa disperatamente ridotta che la rianimazione della dinamica di accumulazione possa ancora portare a dei miglioramenti. Così si spiega anche la forza elettorale dei partiti liberal-conservatori nel nucleo rimanente della forza lavoro effettiva e anche tra la popolazione disoccupata e resa superflua.

Contromovimenti capaci di intervento con il tradizionale potenziale dello sciopero ormai esistono solo riguardo a interessi particolari in posizione chiave (macchinisti delle ferrovie, controllori del traffico aereo), lasciando lungo il cammino gli altri, in quanto rappresentanti di lobbies deboli (es. i produttori di latte). I movimenti di protesta con istanze di sinistra, con la loro critica ridotta al capitalismo, non vanno oltre azioni simboliche con carattere di evento. D’altro lato, l’orientamento statalista della sinistra politica corre il rischio di fiancheggiare l’amministrazione capitalistica della crisi (Linkspartei , a Berlino e altrove).La tendenza inevitabile verso il declino è più probabilmente digerita in formazioni ideologiche antisemite, razziste e sessiste. Anche il femminismo della storia recente è triturato dallo sviluppo della crisi, perché il carattere strutturalmente androcentrico delle categorie capitalistiche rimane occultato e nemmeno nel movimento operaio classico è stato oggetto di qualche riflessione. Simultaneamente, le nuove classi medie diventate quantitativamente dominanti sanno che l’interesse del loro capitale umano qualificato precarizzato dipende da una ripresa della produzione di plusvalore e, a fronte della sparizione di questa, dipende dal credito pubblico e dalle bolle finanziarie. Da un lato, esse si rendono così portatrici di una critica ridotta del capitalismo, cioè ridotta al capitale finanziario; dall’altro, mantengono la speranza precisamente nella sua rianimazione.

Una resistenza generalizzata contro l’amministrazione della crisi, la quale non è ancora all’orizzonte, è possibile solo se viene smorzata fino a un certo grado la concorrenza universale. Non c’è dubbio che le rivendicazioni immanenti debbano costituire il punto di partenza. Ciò include per esempio un salario minimo legale generale sufficiente, un aumento drastico dei valori minimi dei trasferimenti sociali e il blocco delle privatizzazioni dei servizi pubblici, nella salute e in altri campi. Ma, in primo luogo, tali rivendicazioni, data la situazione, non si possono più ottenere attraverso i canali ufficiali della politica. L’orientamento statalista nella coscienza delle masse, così come nella sinistra, costituisce un freno rispetto alla questione, perché in questa forma il problema è delegato allo Stato. Sarebbe invece necessario un movimento sociale di massa non più meramente simbolico, con volontà e capacità di paralizzare l’impresa capitalistica in crisi. In secondo luogo, ciò che è veramente decisivo, tale movimento non può più rimanere dipendente dal criterio di capacità di finanziamento capitalista, il quale presuppone un’accumulazione del capitale come esito. Esso deve dichiarare che gli interessi vitali non sono negoziabili e assumersi coscientemente come “non responsabile” di fronte il criterio sistemico della finanziabilità. Se, in qualche modo, il risultato della politica d’amministrazione della crisi è l’inflazione, solo così si può conseguire capacità di azione. Questa è la condizione per comprendere che la politica tradizionale di riforma con base nell’accumulazione del capitale e l’invocazione del suo successo (“partecipazione all’esito della crescita”), sono divenuti obsoleti e, non per caso, la politica ha virato verso controriforme socialmente repressive. Così viene esclusa anche una politica di sinistra come incubatrice e partecipatrice riformista di un’accumulazione ristrutturata del capitale. Si può trattare solo di un movimento di transizione che sviluppi una nuova coscienza dell’inconsistenza delle condizioni capitaliste di vita e pretenda di superarle.

Così torna all’ordine del giorno la reinvenzione del socialismo. In realtà, la minaccia del noi “possiamo fare differentemente” e la lotta per una società al di là del capitalismo sono sempre stati i catalizzatori e la forza penetrante delle rivendicazioni immanenti. In passato, una crisi economica mondiale della dimensione di quella attuale sarebbe stata inevitabilmente motivo dell’attualizzazione del passaggio verso il socialismo. Se questo obiettivo oggi appare inconcepibile per la maggior parte della sinistra, ciò ha a che fare, naturalmente, con la caduta del socialismo reale burocratico di Stato. Questa fine è stata celebrata come la vigilia del carnevale della “libertà”, la cui falsità la sinistra non vuole riconoscere. Già nell’ideologia del movimento operaio classico e, a maggiore ragione, sotto le coercizioni della “modernizzazione in ritardo”, nelle periferie del mercato mondiale, il concetto di socialismo si ridusse alla nazionalizzazione delle categorie capitalistiche, invece di porre come obiettivo la loro abolizione. Il fallimento di questa riduzione storicamente condizionata, però, non è stato processato criticamente, ma affermativamente. Imbarazza ora questo "arrivo" al capitalismo, i cui criteri (come l’indipendenza delle “imprese”, le concessioni alla concorrenza, la “libertà” di formazione dei prezzi, ecc) già erano stati oggetto delle riforme nel socialismo reale e, prima ancora della fine di questa formazione, già da molto tempo si erano trasformate nel paradigma del carattere insuperabile delle categorie capitalistiche nella sinistra occidentale.

Pertanto, l’orientamento statalista della sinistra non ha nulla a che vedere con l’obiettivo storicamente fallito di uno Stato dei lavoratori, nella base del lavoro astratto ontologizzato; al contrario, la sinistra è completamente ostinata con lo Stato attuale, così come già negli anni venti del secolo passato lo era la socialdemocrazia, per arrivare infine a Godesberg e dopo, con Schröder, al piano Hartz IV. Ciò che resta è, da un lato, un keynesianismo di sinistra adornato con uno pseudo-marxismo, che mai ha superato  un “pacchetto di salvataggio” ideologico della valorizzazione del capitale e che è stato messo da parte dalle istituzioni capitaliste durante gli anni ‘80. Se la sua rivitalizzazione è reclamata da parti della sinistra, nell’allegra speranza di rinnovamento di una riforma della politica, ciò non va oltre l’illusione, perché il nuovo keynesianismo di crisi può soltanto eseguire l’amministrazione repressiva della crisi e non rappresenta più che la continuazione del neoliberalismo con altri mezzi. La stessa questione impellente della pianificazione sociale delle risorse appare solo in una forma perversa, come nazionalizzazione della crisi.  Da un altro lato, complementare al keynesianismo di crisi della “sinistra”, si presenta  il programma di un’”economia solidale” che, oltrepassando il contesto della socializzazione capitalista in strutture alternative particolari (piccole cooperative, comunità di autosfruttamento, aiuti di quartiere, orti di sussistenza, monete regionali alternative, ecc.) propaganda l’illusione in un modo di vita e di produzione “differente” sulla terra bruciata del capitale, programma questo che potrà venire assunto dall’amministrazione di crisi. Un altro aspetto dei miopi orientamenti alternativi consiste nel riprendere la vecchia idea di una “democratizzazione” dell’impresa. Ma una cogestione sotto le condizioni della crisi non si risolve in null’altro che nel rendere i lavoratori responsabili per la sussistenza nella concorrenza (fallimento sul mercato delle imprese occupate dai lavoratori in Argentina, taglio volontario dei salari nella Opel e nella Arcandor).

Tutti questi surrogati della trasformazione, o del socialismo,  eludono basicamente il problema della “sintesi sociale”, realizzata dalla forma generale della riproduzione come forma del valore e della merce, la quale esiste solo a causa della forma merce della forza lavoro. Un nuovo concetto di socialismo può essere conseguito solo nella misura in cui venga rotta l’interiorizzazione delle forme di vita capitaliste attraverso la forma merce della forza  lavoro, del lavoro astratto, della logica della valorizzazione e della forma merce della riproduzione. Storicamente è all’ordine del giorno un’autoamministrazione sociale, al di là di questo contesto sociale e formale, come pianificazione cosciente dell’applicazione delle risorse di tutta la società (risorse naturali, tecnologica, conoscenza), non più basata sulla contabilizzazione delle unità di lavoro astratto; con ciò includendo le infrastrutture e i momenti della riproduzione che non assumono la forma di merce e che vengono delegati alle donne. Tale obiettivo di trasformazione socialista necessita di un periodo storico per stabilirsi; ma allo stesso tempo è anche un prerequisito per poter mobilitare la resistenza alle restrizioni dell’amministrazione di crisi. Tale obiettivo può rendersi comprensibile nella pratica a misura che il decorso della crisi economica mondiale comporti la disattivazione delle risorse vitali, in proporzioni mai viste, per la caduta della redditività e della capacità della concorrenza o del finanziamento, malgrado esistano i mezzi materiali necessari. Se la critica di sinistra del capitalismo vuole uscire da una screditata lotta di retroguardia e recuperare l’offensiva, essa deve rompere questo guscio e saltare sopra la propria ombra storica.

Original: Weltwirtschaftskrise, soziale Bewegung und Sozialismus. 12 Thesen. In www.exit-online.org.

traduzione by lpz