di Robert
Kurz
riprendiamo parte delle
12 tesi della comunicazione presentata da Kurz nella Conferenza del Forum
Marxista della Sassonia (Nov,2009), estrapolando quelle che pongono l’attenzione
sul futuro della sinistra e specificamente sull’orizzonte illusorio che gioca
ancora l’ideologia lavorista. La crisi che stiamo attraversando incalzava
inesorabilmente e già da allora era chiaro che i mezzi “ordinari” offerti dal
paradigma economico sarebbe stati del tutto inadeguati. Tutti simulavano, da
destra consapevolmente e a sinistra con qualche convinzione (basti considerare
l’attuale governo-Letta), che bastasse mettere in atto i meccanismi di
regolazione per risolvere la nuova crisi finanziaria mondiale. Possiamo
ribadire con Kurz che «l’ambita ri-regolamentazione non si avvia venendo al
contrario differita a un tempo immaginario “dopo la crisi” »
Un’analisi
puramente fenomenologica della crisi economica mondiale già mostra che le sue
cause non vengono eliminate dalle manovre di recupero finora adottate.
Un’analisi storica che vada più a fondo può dimostrare che queste cause
risalgono agli anni ottanta del secolo scorso. Dopo che si è esaurita la
dinamica di accumulazione fordista del dopoguerra, non si è concretizzato
l’atteso potenziale di valorizzazione reale nelle nuove aree tecnologiche (tecnologie
dell’informazione, biotecnologia etc.). Il tentativo di rimandare i problemi
della valorizzazione, in primo luogo attraverso il consumo pubblico, è fallito
traducendosi in inflazione. La politica neo-liberale di deregolamentazione si è
limitata a trasferire il problema dal credito pubblico ai mercati finanziari
transnazionali. Si sono così formate le celebri bolle finanziarie che, per più
di due decenni, sono parse generare un’accumulazione virtuale, insostanziale. (…)
La nuova crisi finanziaria mondiale è la prima globale e non può più essere
contenuta con i mezzi abituali. Il modello ufficiale di spiegazione si riduce a
designare come “errore storico” la deregolamentazione neoliberale e a ridurre
la crisi agli "eccessi" dei banchieri nel cielo finanziario che poi,
infelicemente, si sarebbero ripercossi in un’”economia reale” sana. In realtà
si è verificato esattamente il contrario. (…) Poiché il criterio di spiegazione
è falso, anche l’ambita ri-regolamentazione non si avvia venendo al contrario
differita a un tempo immaginario “dopo la crisi”. Non esiste alcuna
"accumulazione reale" sana e la sua dinamica, da molto tempo
esaurita, può essere prorogata solo attraverso dei precari programmi di
simulazione, in cui le bolle finanziarie possibili dopo lo shock della svalutazione
non hanno più forza per il riciclaggio in una nuova congiuntura del
deficit, e in cui il credito pubblico
incontra i suoi limiti già nel breve periodo.
Sta in questo contesto il
peggiore errore di gran parte della sinistra. Anche prima del fallimento
globale, i movimenti di critica della globalizzazione e la sinistra politica,
causa una “critica ridotta del capitalismo”, hanno perlopiù accusato la
speculazione finanziaria delle manifestazioni sociali ed economiche della
crisi, ponendo così a testa in giù la relazione tra causa ed effetto. Pertanto,
non è la sinistra che segue qui il falso modello di spiegazione dell’opinione
pubblica borghese; al contrario, è quest’ultima che pesca il suo modello di
spiegazione nel mainstream della sinistra.
(…) Il
nocciolo del problema è la categoria di
lavoro astratto, definita da Marx in modo chiaramente negativo, ma che fu legata a un’ontologia del lavoro positiva
nella tradizione marxista. Così interpretato, "il lavoro" non
emergerebbe come astrazione reale specificamente capitalista, ma la sostanza
del capitale, che è il lavoro, costituirebbe allo stesso tempo l’eterna
condizione umana. Stando così le cose, il lavoro sarebbe naturalmente
inesauribile. Questo significava, per la teoria della crisi, che era impensabile un
limite interno della sostanza della valorizzazione, venendo così la crisi definita
solo ad un livello di metamorfosi e sproporzionalità nella circolazione del
capitale; come notoriamente la cosiddetta "crisi di pulizia", che
ricompone soltanto l’equilibrio perturbato della riproduzione capitalista. La
stessa nuova crisi mondiale è percepita in questo modo, e qui si basa in ultima
analisi la sintonia con l’orizzonte d’aspettativa borghese. Da qui risulta
anche un’opzione di azione che pretende solo di assumere influenza sulla
ristrutturazione del processo di accumulazione, il quale rimane presupposto,
ritenendo esclusa la possibilità di un suo esaurimento storico.
Così la
sinistra si trova in una sintonia con una coscienza di massa assolutamente
equivoca e insostenibile nella realtà, coscienza, questa, che rimane passiva e
senza forza di mobilitazione. L’interiorizzazione delle categorie
capitalistiche come condizioni di vita non indagate ha già fatto un lungo
percorso. Il movimento operaio classico, fissando i suoi obiettivi, si
manteneva sul terreno della forma d’essere capitalista, e fece della sostanza
di questo essere, il lavoro astratto, la
base della sua legittimazione. Ma questa autolegittimazione si ruppe con la
terza rivoluzione industriale. Il declino globale della classe operaia
creatrice di plusvalore è solo il rovescio della crisi sostanziale del
capitale. I settori dell’esportazione cinese non costituiscono alcuna
controprova quantitativa, perché non hanno come punto di partenza qualsiasi
produzione reale di plusvalore, ma sono stati generati solamente dalle bolle
finanziarie a partire dagli anni ’90. Pertanto, l’invocazione di una “coscienza
di classe” basta sulla creazione di plusvalore cade nel vuoto. Il
"lavoro" ha perduto la sua pretesa sicurezza ontologica. Esso è
screditato, tanto relativamente alla scomparsa della quantità produttiva di
capitale, quanto anche a causa del suo carattere sempre più distruttivo e non
più fondato sui contenuti delle necessità vitali, e ancora a causa della sua
precarizzazione. Un’espressione di questo discredito è lo slogan ufficiale
“qualsiasi impiego è meglio di niente”, inscritto nella coscienza delle
masse sotto l’ontologia del lavoro. Da
qui deriva l’attesa disperatamente ridotta che la rianimazione della dinamica
di accumulazione possa ancora portare a dei miglioramenti. Così si spiega anche
la forza elettorale dei partiti liberal-conservatori nel nucleo rimanente della
forza lavoro effettiva e anche tra la popolazione disoccupata e resa superflua.
Contromovimenti
capaci di intervento con il tradizionale potenziale dello sciopero ormai
esistono solo riguardo a interessi particolari in posizione chiave (macchinisti
delle ferrovie, controllori del traffico aereo), lasciando lungo il cammino gli
altri, in quanto rappresentanti di lobbies deboli (es. i produttori di latte).
I movimenti di protesta con istanze di sinistra, con la loro critica ridotta al
capitalismo, non vanno oltre azioni simboliche con carattere di evento. D’altro
lato, l’orientamento statalista della sinistra politica corre il rischio di
fiancheggiare l’amministrazione capitalistica della crisi (Linkspartei , a
Berlino e altrove).La tendenza inevitabile verso il declino è più probabilmente
digerita in formazioni ideologiche antisemite, razziste e sessiste. Anche il
femminismo della storia recente è triturato dallo sviluppo della crisi, perché
il carattere strutturalmente androcentrico delle categorie capitalistiche
rimane occultato e nemmeno nel movimento operaio classico è stato oggetto di
qualche riflessione. Simultaneamente, le nuove classi medie diventate
quantitativamente dominanti sanno che l’interesse del loro capitale umano
qualificato precarizzato dipende da una ripresa della produzione di plusvalore
e, a fronte della sparizione di questa, dipende dal credito pubblico e dalle
bolle finanziarie. Da un lato, esse si rendono così portatrici di una critica
ridotta del capitalismo, cioè ridotta al capitale finanziario; dall’altro,
mantengono la speranza precisamente nella sua rianimazione.
Una
resistenza generalizzata contro l’amministrazione della crisi, la quale non è
ancora all’orizzonte, è possibile solo se viene smorzata fino a un certo grado
la concorrenza universale. Non c’è dubbio che le rivendicazioni immanenti
debbano costituire il punto di partenza. Ciò include per esempio un salario
minimo legale generale sufficiente, un aumento drastico dei valori minimi dei
trasferimenti sociali e il blocco delle privatizzazioni dei servizi pubblici,
nella salute e in altri campi. Ma, in primo luogo, tali rivendicazioni, data la
situazione, non si possono più ottenere attraverso i canali ufficiali della
politica. L’orientamento statalista nella coscienza delle masse, così come
nella sinistra, costituisce un freno rispetto alla questione, perché in questa
forma il problema è delegato allo Stato. Sarebbe invece necessario un movimento
sociale di massa non più meramente simbolico, con volontà e capacità di
paralizzare l’impresa capitalistica in crisi. In secondo luogo, ciò che è
veramente decisivo, tale movimento non può più rimanere dipendente dal criterio
di capacità di finanziamento capitalista, il quale presuppone un’accumulazione
del capitale come esito. Esso deve dichiarare che gli interessi vitali non sono
negoziabili e assumersi coscientemente come “non responsabile” di fronte il
criterio sistemico della finanziabilità. Se, in qualche modo, il risultato
della politica d’amministrazione della crisi è l’inflazione, solo così si può
conseguire capacità di azione. Questa è la condizione per comprendere che la
politica tradizionale di riforma con base nell’accumulazione del capitale e
l’invocazione del suo successo (“partecipazione all’esito della crescita”),
sono divenuti obsoleti e, non per caso, la politica ha virato verso
controriforme socialmente repressive. Così viene esclusa anche una politica di
sinistra come incubatrice e partecipatrice riformista di un’accumulazione
ristrutturata del capitale. Si può trattare solo di un movimento di transizione
che sviluppi una nuova coscienza dell’inconsistenza delle condizioni
capitaliste di vita e pretenda di superarle.
Così torna
all’ordine del giorno la reinvenzione del socialismo. In realtà, la minaccia
del noi “possiamo fare differentemente” e la lotta per una società al di là del
capitalismo sono sempre stati i catalizzatori e la forza penetrante delle
rivendicazioni immanenti. In passato, una crisi economica mondiale della
dimensione di quella attuale sarebbe stata inevitabilmente motivo
dell’attualizzazione del passaggio verso il socialismo. Se questo obiettivo
oggi appare inconcepibile per la maggior parte della sinistra, ciò ha a che
fare, naturalmente, con la caduta del socialismo reale burocratico di Stato.
Questa fine è stata celebrata come la vigilia del carnevale della “libertà”, la
cui falsità la sinistra non vuole riconoscere. Già nell’ideologia del movimento
operaio classico e, a maggiore ragione, sotto le coercizioni della
“modernizzazione in ritardo”, nelle periferie del mercato mondiale, il
concetto di socialismo si ridusse alla nazionalizzazione delle categorie
capitalistiche, invece di porre come obiettivo la loro abolizione. Il
fallimento di questa riduzione storicamente condizionata, però, non è stato
processato criticamente, ma affermativamente. Imbarazza ora questo "arrivo"
al capitalismo, i cui criteri (come l’indipendenza delle “imprese”, le
concessioni alla concorrenza, la “libertà” di formazione dei prezzi, ecc) già
erano stati oggetto delle riforme nel socialismo reale e, prima ancora della
fine di questa formazione, già da molto tempo si erano trasformate nel
paradigma del carattere insuperabile delle categorie capitalistiche nella
sinistra occidentale.
Pertanto,
l’orientamento statalista della sinistra non ha nulla a che vedere con
l’obiettivo storicamente fallito di uno Stato dei lavoratori, nella base del
lavoro astratto ontologizzato; al contrario, la sinistra è completamente
ostinata con lo Stato attuale, così come già negli anni venti del secolo
passato lo era la socialdemocrazia, per arrivare infine a Godesberg e dopo, con
Schröder, al piano Hartz IV. Ciò che resta è, da un lato, un keynesianismo di
sinistra adornato con uno pseudo-marxismo, che mai ha superato un “pacchetto di salvataggio” ideologico
della valorizzazione del capitale e che è stato messo da parte dalle
istituzioni capitaliste durante gli anni ‘80. Se la sua rivitalizzazione è
reclamata da parti della sinistra, nell’allegra speranza di rinnovamento di una
riforma della politica, ciò non va oltre l’illusione, perché il nuovo keynesianismo
di crisi può soltanto eseguire l’amministrazione repressiva della crisi e non
rappresenta più che la continuazione del neoliberalismo con altri mezzi. La
stessa questione impellente della pianificazione sociale delle risorse appare
solo in una forma perversa, come nazionalizzazione della crisi. Da un altro lato, complementare al
keynesianismo di crisi della “sinistra”, si presenta il programma di un’”economia solidale” che, oltrepassando
il contesto della socializzazione capitalista in strutture alternative
particolari (piccole cooperative, comunità di autosfruttamento, aiuti di
quartiere, orti di sussistenza, monete regionali alternative, ecc.) propaganda
l’illusione in un modo di vita e di produzione “differente” sulla terra
bruciata del capitale, programma questo che potrà venire assunto
dall’amministrazione di crisi. Un altro aspetto dei miopi orientamenti
alternativi consiste nel riprendere la vecchia idea di una “democratizzazione”
dell’impresa. Ma una cogestione sotto le condizioni della crisi non si risolve
in null’altro che nel rendere i lavoratori responsabili per la sussistenza
nella concorrenza (fallimento sul mercato delle imprese occupate dai lavoratori
in Argentina, taglio volontario dei salari nella Opel e nella Arcandor).
Tutti questi
surrogati della trasformazione, o del socialismo, eludono basicamente il problema della
“sintesi sociale”, realizzata dalla forma generale della riproduzione come
forma del valore e della merce, la quale esiste solo a causa della forma merce
della forza lavoro. Un nuovo concetto di socialismo può essere conseguito solo
nella misura in cui venga rotta l’interiorizzazione delle forme di vita
capitaliste attraverso la forma merce della forza lavoro, del lavoro astratto, della logica
della valorizzazione e della forma merce della riproduzione. Storicamente è
all’ordine del giorno un’autoamministrazione sociale, al di là di questo
contesto sociale e formale, come pianificazione cosciente dell’applicazione
delle risorse di tutta la società (risorse naturali, tecnologica, conoscenza),
non più basata sulla contabilizzazione delle unità di lavoro astratto; con ciò
includendo le infrastrutture e i momenti della riproduzione che non assumono la
forma di merce e che vengono delegati alle donne. Tale obiettivo di trasformazione
socialista necessita di un periodo storico per stabilirsi; ma allo stesso tempo
è anche un prerequisito per poter mobilitare la resistenza alle restrizioni
dell’amministrazione di crisi. Tale obiettivo può rendersi comprensibile nella
pratica a misura che il decorso della crisi economica mondiale comporti la
disattivazione delle risorse vitali, in proporzioni mai viste, per la caduta
della redditività e della capacità della concorrenza o del finanziamento,
malgrado esistano i mezzi materiali necessari. Se la critica di sinistra del
capitalismo vuole uscire da una screditata lotta di retroguardia e recuperare
l’offensiva, essa deve rompere questo guscio e saltare sopra la propria ombra
storica.
Original:
Weltwirtschaftskrise, soziale Bewegung und Sozialismus. 12 Thesen. In www.exit-online.org.
traduzione
by lpz