giovedì 9 maggio 2013

Una new age dei beni comuni?

di Lanfranco Caminiti

Nell’epoca in cui l’umanità vive la più intensa e straordinaria esperienza dell’essere-in-comune, in un tempo in cui mai l’umano è stato attraversato da una condizione esistenziale di dimensione universale ma al tempo stesso atomizzata, è possibile superare “la dicotomia che vede nello smantellamento dello Stato e nello Stato minimo il trionfo del neoliberismo e dell’individualismo sfrenato e nello Stato la roccaforte del diritto, dei diritti, della responsabilità individuale, di un senso etico e di cura degli altri?”
  
A chiunque sarà capitato, curiosando in rete per avere maggiori informazioni su questa o quella mobilitazione di un territorio, di incontrare un appuntamento sociale “in difesa della tratta ferroviaria tra la stazione di Vattelappesca e quella di Inculoallaluna minacciata da processi di privatizzazione” che chiamava alla lotta per il bene comune.
La forza prensile e didascalica del concetto è andata di pari passo con la sua banalizzazione, si dice. Ora, non è che la banalizzazione sia di per sé un male. La banalizzazione, meglio: la riduzione a un’espressione semplice, è un potente impulso di diffusione, una popolarizzazione di un concetto complesso, sfaccettato. Se può derivarne un indebolimento concettuale, non è detto che non possa anche registrarsi un rafforzamento politico, di mobilitazione sociale, appunto. Non è che dobbiamo avere sempre paura che concetti forti diventino popolari, perché così il carattere innovativo, rivoluzionario perde la sua potenza, un po’ come una palla di fuoco che per l’attrito si fa sempre più lenta e innocua.
Il problema, semmai, è proprio dal lato della continua costruzione concettuale del “bene comune”, cioè di un lavoro che è insieme di approfondimento teorico e di sperimentazione sociale, insomma politico. È qui che dovremmo evitare di ripetere luoghi comuni e banalità, per non ritrovarci, invece che a batterci per una repubblica dei beni comuni per una dei luoghi comuni.
Dovremmo insomma evitare una sorta di new age dei beni comuni. Quella versione olistica — il clima, l’orbe terracqueo, le nevi perenni, i grandi ghiacciai, gli oceani, la biodiversità — e quella versione ridondante di dettagli — la tratta ferroviaria Vattelappesca/Inculoallaluna, appunto. L’una e l’altra non possono che incorrere in stereotipi. Prima o poi, l’incanto della narrazione diventa stucchevole.

Nostalgia e rimpianto
Che cos’è che rende così accessibile il concetto di bene comune e anche così immediatamente comprensibile? Cos’è che rende possibile quel processo di identificazione fra sé e “la trama narrativa” del bene comune, cioè qual è il meccanismo narrativo? Io credo che sinora nella narrazione sociale giochi un certo sentimento di “nostalgia”, nostalgia per qualcosa che si è perduto. E non mi riferisco solo a chi, per età, ha un’esperienza di vita più sociale — la scuola, la sanità, le occasioni di relazione — che la privatizzazione e la finanziarizzazione selvagge hanno spazzato via, ma anche a chi, più giovane, è cresciuto dentro questi processi selvatici e ne ha preso coscienza e presume l’incanto di un mondo diverso, più sociale, “prima”. Gioca insomma la nostalgia per qualcosa che ci è stato tolto — e noi soffriamo più per quello che ci viene tolto di quanto possiamo gioire per quello che non abbiamo ancora — o il rimpianto per quello che non s’è avuto. E gioca anche una consapevolezza di un “pessimismo del futuro”, sia in chi ha visto gradatamente smantellare istituzioni, spazi, momenti di comunità e quindi ha conto di un processo negativo che sembra inarrestabile, e sia in chi non ha contezza di un passato diverso, insomma della “storia”, ma vede questo presente incerto e precario come un’orribile opzione su quello che accadrà, come un “immobilismo della storia”, una scomparsa dello svolgimento storico. Nostalgia e rimpianto sembrano le tonalità dei sentimenti narrativi del bene comune. 
L’esperienza dell’umano
Eppure, io credo che l’accessibilità del concetto e la sua comprensibilità — o forse meglio: il fatto che ciascuno lo riempia di cose proprie, di propri saperi, di proprie applicazioni estensive o immediate — nasca non solo dai sentimenti della nostalgia e del rimpianto e dal pessimismo del futuro, ma dall’sperienza.
Non c’è mai stato un tempo in cui l’umanità abbia vissuto così intensamente l’esperienza dell’essere–in–comune. E pure mai un tempo in cui l’atomizzazione degli individui sia così definita, in cui l’umano sia così differenziato. Mai un tempo in cui l’umano sia così universale e pure così particolareggiato e sminuzzato, così vicino e così lontano. L’essere–in–comune non ha più solo il segno precipuo del timore, della paura della morte insieme [come è stato per la trincea delle guerre del novecento, l’esplosione della bomba atomica], ma altrettanto quello della speranza, della felicità. La paura della morte non è più la prima delle passioni sociali dell’uomo, anche dopo l’11 settembre. Non c’è esperienza religiosa, sessuale e sociale a cui io non possa accedere. Domattina posso scoprirmi musulmano, scintoista, copto, e provare a praticare questa mia nuova fede. Domattina posso farmi le tette e provare un’esperienza sessuale completamente rovesciata. Domattina posso farmi decine di amici inventandomi un’identità, e chattare con loro, e mandare tweet stupidi o intelligenti, e poi cambiare di nuovo e di nuovo ancora. Ognuna di queste esperienze è reversibile. È questo che era inimmaginabile solo un pugno d’anni fa. Era inimmaginabile che un’esperienza fosse praticabile sino in fondo e pure reversibile. Faccio un esempio “terribile” di questi passaggi: quello del giovane Tsarnaev, il più giovane dei due fratelli ceceni che hanno attentato alla maratona di Boston, che aveva abbracciato convintamente un processo di assimilazione, vi era cresciuto, pure con sollecitazioni opposte, e poi gli si è volto contro, in un passaggio turbinoso di identità che ha avuto del micidiale. L’esperienza dell’umano – di ogni antagonismo naturale, di ogni conflitto — non è il migliore dei mondi possibili, eppure è il possibile mondo che abitiamo adesso. La molteplicità di identità umane che ci è possibile praticare è anche l’abbandono di una serie di identità e di pratiche. Ogni abbandono non ci rende “ex”, anzi ci fa neofiti. Siamo sempre neofiti di una qualche esperienza. L’esperienza “finita” dell’altro viene trattenuta e si proietta nell’esperienza infinita del “comune”. È un umanesimo nomade quello che viviamo, senza centro, quasi rovesciando l’antropocentrismo dell’umanesimo rinascimentale. Non c’è bisogno che io non possa patire e non c’è desiderio che io non possa sognare. Non c’è diritto che io non possa immaginare. Il «diritto a tutte le cose» si diffonde e cresce tra un desiderio esclusivo proprietario, di possesso e una possibilità di uso comune. Tra l’amor proprio e l’amor comune non c’è più solo una relazione di esclusività — il mercante e il mercato, il monaco e la comunità religiosa.
È la miserabilità e la potenza del presente il purgatorio dell’essere–in–comune. Ma il bene comune non è uno stato da ripristinare né un sol dell’avvenire. È il paletto di frassino conficcato in un presente che è non–vivo e non–morto, è il conflitto che spacca il presente del non–ancora e del non–più.

Le categorie
È perciò evidente la mia perplessità riguardo la “categoria dei beni comuni”, la categorizzazione dei beni comuni, anche in una versione lata [«i beni comuni sono quei beni che non sono proprietà di nessuno, come l’acqua, l’aria, il clima, le risorse minerarie dei fondi marini, la biodiversità, la conoscenza e la cultura, le orbite satellitari, le bande dell’etere»; e ancora: «non solo le componenti naturali ma anche le forme della conoscenza, il capitale sociale, le regole, le norme, le istituzioni e i diritti sono essi stessi beni pubblici»: cito da Laura Pennacchi, Filosofia dei beni comuni, Donzelli, 2012].
Perché mi sembra più proprio, più perspicuo mettere in relazione e conflitto la nostra “dannata” — antagonista fra realtà e splendore glorioso, come antagonista è tutto ciò che è umano — esperienza dell’essere–in–comune con l’intero assetto istituzionale, normativo e proprietario. O l’essere–in–comune trova forme, istituzioni, norme e regole che decretino e diano ordine nuovo alla nostra esperienza del vivere, del lavorare, del desiderare, del patire, del conoscere, diventando grundnorme, principio fondativo e costitutivo della nostra sperimentazione sociale. Oppure, si restringe nell’orizzonte della normativizzazione “una parte” [comune] del nostro essere gettati nel mondo [nel pubblico e nel privato, nella mondanità e nell’interiorità].
In un mondo dove di tutto ciò che è comune ormai sembra ci si possa appropriare, senza neppure produrlo, senza neppure toglierlo a un altro, e dove nulla può essere distribuito ma rimanere stretto in poche mani, e dove la produzione ha perso il suo carattere lineare di accumulazione e espansione, perciò di liberazione, ma rimane stretta in un ciclo di creazione e distruzione di ricchezza, perciò di asservimento, quale mai potrà essere la legge?

C’è vita oltre lo Stato?
Un appunto polemico, nei confronti di Laura Pennacchi — che peraltro considero persona preparata e competente —, già citata, e del suo libro. La Pennacchi parla di una triangolazione necessaria pubblico–privato–comune, e della insopprimibile necessità di rifondare lo Stato come garante. Uno Stato forte e stratega, per un nuovo modello di sviluppo. La Pennacchi parla di stateness, traducibile forse con statualità, forse con statabilità, più propriamente forse con “sentimento di Stato”.
È possibile superare la dicotomia che vede nello smantellamento dello Stato e nello Stato minimo il trionfo del neoliberismo e dell’individualismo sfrenato e nello Stato la roccaforte del diritto, dei diritti, della responsabilità individuale, di un senso etico e di cura degli altri?
La questione non è che lo Stato — il cui percorso di realizzazione è stato importantissimo, quello, poi, della modernità — abbia dato una brutta prova di sé e vada quindi rimesso in ordine; la questione non è che sia una ingombrante presenza, che sia troppo, cioè, oppure che sia stato poco e ce ne occorra semmai di più — che era il pensiero di Federico Caffè —, ma che è diventato un obiettivo “minuto” a fronte della complessità sociale e della ricchezza dell’individuo, a fronte cioè della potenza e della capacità dell’essere–in–comune.
La funzione dello Stato di redistribuzione senza essere più produttore è divenuta oppressiva e odiosa. Ricondurre la produzione allo Stato [ché su questo si fondava la sua autorità e la sua legge], che sarebbe poi il ruolo del “pubblico” che prima d’essere distributivo è produttivo, è ormai impossibile: la produzione è sfuggita dal pubblico e non si può più ricondurla.
È possibile la democrazia senza lo Stato? Come potrà configurarsi una nuova democrazia, dopo quella “democrazia del privato” che è stata la democrazia liberale, dopo quella “democrazia del pubblico” che è stata la democrazia keynesiana, la grosse koalition, il compromesso storico fra socialdemocrazia e popolari del secondo dopoguerra? Come potrà essere la forma della democrazia dell’essere–in–comune?
È possibile l’esercizio della sovranità e della forza senza lo Stato, che trattenga o eserciti la forza presso di sé senza alienarla? È possibile la repubblica senza lo Stato? È possibile esercitare le virtù repubblicane senza lo Stato? È possibile un patto tra gli uomini — una cospirazione delle volontà e delle opportunità — non più solo per timore della morte ma per speranza di felicità?