giovedì 9 maggio 2013

Le rivoluzioni arabe due anni dopo*

di Samir Amin

Queste insurrezioni scoppiate nel 2011 hanno sorpreso i regimi al potere nonché le cancellerie occidentali che li hanno sostenuti, ma non hanno sorpreso i militanti della sinistra araba. Dei segni anticipatori, lo sciopero di Gassa, quello degli operai egiziani nel 2007/2008, la resistenza dei piccoli contadini egiziani alle espropriazioni accelerate, le manifestazioni democratiche delle classi medie (la Kefaya in Egitto), ci avevano in qualche modo preavvertito

Capitalismo di connivenza, Stato compradore e sviluppo straccione
I governi egiziani successivi a quello di Sadat, e fino ai giorni nostri, hanno messo in opera con assiduità tutti i principi del fondamentalismo neo liberale. Il progetto nasseriano di costruzione di uno Stato nazionale sviluppato ha prodotto un modello di capitalismo di stato che Sadat ha smantellato. I profitti realizzati sono stati ceduti a uomini d'affari conniventi e vicini al potere, agli arabi del Golfo e a società straniere americane e europee, a dei prezzi irrisori. Questa è la strada seguita per costruire la nuova classe possidente egiziana e straniera che merita pienamente la qualifica di capitalismo connivente.
La proprietà concessa alle Forze armate ha trasformato il carattere di responsabilità diretta che esercitava su certi settori del sistema produttivo (officine produttrici di armi) gestite in quanto istituzioni dello Stato. Questi poteri di gestione sono stati ceduti alla proprietà privata. L'accumulazione di ricchezza egiziana e straniera si è formata con l'acquisizione di profitti già esistenti senza aggiungere che trascurabili capacità produttive. Le entrate di capitali stranieri (arabi ed altri), in apparenza modesti, appartengono a questo quadro. L'operazione si è dunque saldata con la messa in opera di gruppi monopolistici privati che dominano ormai tutta l'economia egiziana. Le posizioni monopolistiche di questo nuovo capitalismo di connivenza sono state sistematicamente rafforzate da sovvenzioni colossali da parte dello Stato. I salari reali della grande maggioranza dei lavoratori si sono deteriorati per effetto della legge sul libero mercato del lavoro e per la feroce repressione delle azioni collettive e sindacali. L'ineguaglianza si è drasticamente ingigantita con il sistema di fiscalità leggera per i ricchi e le società con la benedizione della Banca Mondiale per le sue pretese virtù agli investimenti. Queste politiche hanno reso impossibile la riduzione del deficit pubblico e di quello della bilancia estera commerciale. Inoltre hanno trascinato il deterioramento continuo del valore della lira egiziana e imposto un indebitamento interno ed estero in continua crescita. Tutto ciò ha offerto l'occasione al FMI d'imporre sempre più i principi del liberalismo.

Le risposte immediate del movimento popolare
Queste risposte non sono opera dell'autore il cui scritto è successivo ai contatti avuti con i responsabili delle varie componenti dei movimenti. Sottolineo i punti seguenti: a) la proprietà dei profitti pubblici “privatizzati” deve essere trasferita da apposita legge a delle società anonime di cui lo Stato sarà azionario e dopo avere ripianato la differenza tra il valore reale dei profitti e quello pagato dagli acquirenti; b) la legge deve stabilire un salario minimo legato ad una scala mobile. Stabilito che, in quanto beneficiari della libertà dei prezzi, i settori privati che dominano l'economia egiziana hanno già scelto di fissare i loro prezzi simili a quelli delle importazioni concorrenti, la misura può diventare subito operante e non avrà altro effetto che quello di ridurre i margini di rendita dei monopoli; c) le concessioni colossali elargite dai budget statali per i monopoli privati devono essere soppresse. Gli studi condotti in questo ambito dimostrano che l'abolizione di questi vantaggi non ledono in alcun modo la redditività delle varie attività, ma riducono soltanto le rendite monopolistiche; d) una nuova legislazione fiscale deve essere messa a punto, fondata sull'imposta progressiva degli individui e il prelievo del 25% della tassa sui profitti delle imprese con più di 20 lavoratori. Gli esoneri d'imposta concesse con estrema larghezza ai monopoli arabi e stranieri devono essere soppressi. La tassazione delle piccole e medie imprese, attualmente troppo pesanti, devono essere riviste al ribasso. Un calcolo preciso è stato condotto e dimostra che l'insieme delle misure proposte permette, non solamente di sopprimere il deficit attuale, ma di liberare un eccedenza che sarà destinata alla sanità e all'edilizia popolare; e) alcune organizzazioni progressiste di agronomi hanno realizzato progetti concreti destinati ad assicurare maggiore efficienza ai piccoli contadini : miglioramento dei metodi di irrigazione (goccia a goccia, ecc.), scelta di culture ricche e intensive (legumi e frutta), liberazione a monte, con il controllo dello Stato, delle forniture di strutture e di crediti, liberazione a valle con la creazione di cooperative di commercio di produttori, associati alle cooperative di consumatori.
Il programma di azioni immediate ripreso nel paragrafo precedente avvierebbe la ripresa di una crescita economica sana e condivisibile. L'argomento usato dai suoi detrattori liberali che tutto ciò colpirebbe l'afflusso di capitali esteri non è credibile. L'esperienza dell'Egitto e di altri paesi, particolarmente africani, che hanno accettato di sottomettersi integralmente ai precetti del liberismo e hanno rinunciato ad avere un proprio programma di sviluppo autonomo, non attirano affatto i capitali stranieri a dispetto delle loro aperture incontrollate (o più precisamente proprio causa di quelle).
I capitali esteri si contentano in tal caso di razziare le risorse del paese citato, sostenuti dallo Stato compradore e dal capitalismo di connivenza. Al contrario, i paesi emergenti che mettono invece in opera progetti nazionali di sviluppo offrono delle possibilità reali agli investitori stranieri che accettano di partecipare a questi progetti, come pure accettano le condizioni loro imposte dallo Stato nazionale nonché il riequilibrio dei loro profitti a tassi ragionevoli.
Il governo attualmente insediato al Cairo, composto esclusivamente da Fratelli Mussulmani scelti dal presidente Morsi, ha subito proclamato la sua adesione incondizionata a tutti i principi del liberismo e dispiegato a questo fine tutti i mezzi di repressione ereditati dal vecchio regime abbattuto. Lo Stato compradore e il capitalismo di connivenza sono di nuovo al potere ! La coscienza popolare ha recepito il messaggio antipopolare e scende in piazza come testimoniato dalle grandi manifestazioni di protesta e di collera del 12 e 19 ottobre. Il movimento è ripreso e continua. Come è stato detto in tutte le strade d''Egitto : la rivoluzione non ha cambiato il regime, ma il popolo sì che è cambiato.

Riforme promosse e padroneggiate dall'interno saranno possibili in Algeria?
L'Algeria e l'Egitto sono stati, nel mondo arabo, i due paesi d'avanguardia del primo “risveglio del Sud”, all'epoca di Bandung, del “non allineamento” e delle affermazioni nazionali vittoriose post coloniali, associate ad autentiche realizzazioni economiche e sociali importanti e progressiste che prefiguravano buone possibilità per l'avvenire. Ma in seguito i due paesi sono usciti di scena fino ad accettare un “ritorno all'ovile” tra gli stati e le società dominate dall'imperialismo.
Il modello algerino ha mostrato, a suo tempo, i segni evidenti di una maggiore consistenza, ciò che spiega come abbia meglio resistito alla sua degradazione ulteriore. La classe dirigente algerina, molto composita e divisa, incapace di scegliere tra le aspirazioni nazionali ancora presenti in alcuni e la sottomissione alla compradorizzazione di altri (talvolta queste due componenti conflittuali si combinano nelle stesse persone !). In Egitto invece, la classe dominante è diventata integralmente, con Sadat e Mubarak, una borghesia compradora priva di qualsiasi aspirazione nazionale.
Due le ragione che rendono chiara la differenza. La guerra di liberazione in Algeria aveva prodotto naturalmente una radicalizzazione sociale e ideologica. Al contrario, in Egitto, il nasserismo arriva alla fine del periodo di eclisse del movimento iniziato dalla rivoluzione del 1919, che si radicalizza nel 1946. L'ambiguo colpo di stato del 1952 arriva come risposta alla stasi del movimento. La società algerina aveva invece subito con la colonizzazione, assalti distruttivi maggiori. La nuova società algerina uscita dopo la riconquista dell'indipendenza, non aveva più nulla in comune con quelle delle epoche precoloniali : era diventata una società “plebeizzata” con una forte aspirazione all'eguaglianza. Questa aspirazione – con la stessa forza – non si ritrova in nessuna altra parte del mondo arabo, né nel Magreb, né nel Mashrek. Per contro, l'Egitto moderno, è stato costruito all'inizio (a partire da Mohamed Alì), dalla sua aristocrazia, diventata progressivamente una “borghesia aristocratica” (o una “aristocrazia capitalista”). Da questa differenza ne deriva un'altra di una importanza evidente, concernente l'avvenire dell'islam politico. Come mostra Hocine Bellalufi, l'islam politico algerino (il FIS) che aveva presentato la sua mostruosa identità, è stato sconfitto. Ma questo non significa che questa questione sia del tutto superata. La differenza è comunque grande rispetto all'Egitto che si caratterizza per la convergenza solida tra la borghesia compradora e l'islam politico dei Fratelli Mussulmani.
Da tutte queste differenze tra i due paesi emergono possibilità di risposte diverse alle sfide attuali. L'Algeria sembra meglio piazzata (o meno mal piazzata), per rispondere a queste sfide, nel breve termine di mesi. Riforme economiche, politiche e sociali promosse padroneggiate dall'interno sembrano avere ancora delle chance in Algeria. Diversamente dall'Egitto dove il confronto tra il “movimento” e il blocco reazionario “contro rivoluzionario” sembra inesorabilmente aggravarsi.
L'Algeria e l'Egitto costituiscono due esempi magistrali dell'impotenza delle società di quel tipo di fare fronte alla sfida. Si tratta di due paesi del mondo arabo potenziali candidati possibili tra i paesi “emergenti”. La responsabilità maggiore delle classi dirigenti e dei sistemi di potere in atto che hanno causato i disastri sembra fatalmente destinata a riprodursi. Ma la volontà di cambiamento delle società, dei loro intellettuali, dei militanti dei movimenti in lotta devono essere tutte ugualmente prese in seria considerazione.
La stessa speranza di un'evoluzione democratica pacifica è possibile anche in Marocco ? Dubito che il popolo marocchino continuerà ad aderire al dogma arcaico che non dissocia la monarchia e al suo preteso diritto divino sulla nazione. E' senza dubbio la ragione per la quale i marocchini non comprendono le ragioni del popolo saharaui : i fieri nomadi del Sahara hanno un altra concezione dell'islam che impedisce loro di inginocchiarsi davanti ad un altro Allah, sia pure un monarca.

Il dramma siriano
Gli Stati Uniti hanno capito la lezione dopo le sorprese di Tunisia e Egitto e hanno deciso di cavalcare il movimento di protesta introducendo gruppi armati che prendessero l'iniziativa di aggredire l'apparato dello Stato, auto proclamandosi “armata di liberazione”e chiedendo immediatamente il sostegno della Nato.
Questa strategia è stata già collaudata con successo in Libia. Il risultato non è stato ovviamente l'instaurazione della democrazia ma la disintegrazione del paese, ceduto ai signori della guerra, quasi sempre islamisti amici di Al Qaeda! Il modello Somalia ha ispirato questa strategia. E' la stessa strategia messa in atto in Siria, con l'introduzione di gruppi armati infiltrati, a partire dalla Giordania (agli ordini di Tel Aviv), da Tripoli (base dell'islam radicale in Libano), e dalla Turchia (considerata da mezza America latina la Colombia del Medio Oriente). Potenza importante della Nato, la Turchia partecipa alla cospirazione contro la Siria: i campi cosiddetti dei “rifugiati” nell'Hatay sono in realtà dei campi di addestramento di mercenari reclutati nei gruppi terroristi (talebani e altri), finanziati dall'Arabia saudita e dal Qatar.
Bisognerebbe essere molto ingenui per essere sorpresi dal silenzio delle cancellerie occidentali : silenzio sul reclutamento dei terroristi, silenzio sui proclami di questi “liberatori” (“passeremo sul corpo degli alawiti, dei Drusi e dei cristiani”), silenzio concernente il regime di Ryad e di Doha, promossi, tra i “difensori della democrazia”, silenzio sul massacro dei manifestanti in Barhein perpetrato dall'armata saudita, silenzio sull'introduzione di Al Qaeda nello Yemen destinato a far fronte ad un possibile ritorno della sinistra sud-yemenita ! Il terrorismo ha le spalle larghe: imperdonabile quando attacca gli Stati Uniti, benvenuto quando serve. Questa strategia del caos programmato è peraltro formulata col più grande cinismo dalle autorità di Washington.
Il regime baathista della Siria aveva beneficiato di legittimità allo stesso titolo di altri regimi nazional-popolari dell'epoca. In seguito aveva raggiunto a sua volta il campo neo liberista come gli altri. Il disastro sociale che ne è seguito ha prodotto le stesse conseguenze che altrove : la crescita delle proteste democratiche e sociali, perfettamente legittime, la risposta del regime con la repressione. E' quasi divertente notare che il capo della “ribellione siriana” - Kaddam – è stato il principale artefice della liberalizzazione economica.
Rimane il fatto che la distruzione della Siria costituisce l'obbiettivo dei tre principali partners : Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita che hanno mobilitato a questo fine i Fratelli Mussulmani. La loro eventuale vittoria – con o senza l'intervento militare straniero – produrrebbe lo sfacelo del paese e il massacro degli alawiti, dei drusi e dei cristiani. Ma poco importa. L'obbiettivo di Washington non è quello di liberare la Siria dal suo dittatore, ma di distruggere il paese come è successo in Iraq.
Il veto di Russia e Cina ha per fortuna reso più difficile i “bombardamenti umanitari” modello Libia. Il regime di Damasco ha a sua volta capito e individuato i focolai di intervento maggiore alimentati dall'esterno. Rimane il fatto che l'entrata in scena dei gruppi al soldo delle potenze straniere ha deviato il movimento democratico e sociale su una falsa pista. Il “movimento” - diffuso ma senza un'organizzazione propria – ha rifiutato di legarsi al campo dei comitati cosiddetti di liberazione, chiaramente manipolati dalle potenze imperialiste, senza peraltro sostenere il regime impegnato nella repressione. Rispondere al terrorismo degli agenti imperialisti con il terrore dello Stato non è comunque la risposta efficace alla sfida. La soluzione va cercata nella concessione di riforme a beneficio delle forze popolari e democratiche che esistono e rifiutano di arruolarsi nei Fratelli Mussulmani. Se il governo di Damasco si mostra incapace di comprenderlo il dramma proseguirà fino alla fine.

Democrazia o distruzione degli Stati e delle nazioni
L'obbiettivo degli Stati Uniti e dei loro alleati subalterni della Nato per “un grande Medio Oriente” non è certamente la democrazia ma la garanzia di proseguire la sottomissione dei paesi della regione alle esigenze della mondializzazione in quanto operante a esclusivo beneficio dei monopoli imperialisti. “Tutto cambia perché niente cambi”. Lo sviluppo straccione fondato sull'esclusione e sull'impoverimento della grande maggioranza è lo scopo centrale di questa strategia.
La sua realizzazione richiede la distruzione degli Stati e delle società che si oppongono. L'Iraq ne è stato il modello. Là gli occupanti statunitensi hanno sostituito alla dittatura di Saddam Husseim con tre dittature ancor più criminali, in nome della religione (sciita e sunnita) e dell'etnicità kurda. Dittature che hanno compiuto l'assassinio sistematico di decine di migliaia di quadri scientifici e professionali, poeti inclusi, e vietato ogni forma di educazione che non fosse religiosa e utile al potere
L'obbiettivo che si intravede dopo la distruzione della Siria è quella dell'Iran con il falso pretesto delle armi nucleari. Due pesi, due misure, come sempre : l'armamento nucleare di Israele non è mai stato messo in discussione !
Ma questa strategia mira ai paesi emergenti e, soprattutto a Russia e Cina. L'establishment degli Stati Uniti ha formulato a questo scopo un programma in due tempi. Si tratta in primo luogo di contenere gli sforzi su cui questi paesi sono impegnati per modulare la mondializzazione ed imporre la sua gestione policentrica, ponendo fine all'egemonismo di Washington. Il termine inglese usato è quello di “containment”. Ma a lungo termine gli USA vogliono distruggere la loro capacità di movimento autonomo e ricolonizzarli. Il termine utilizzato è quello di “rolling back”. La prospettiva implica apertamente l'abolizione del diritto internazionale, del rispetto della sovranità degli Stati e il ricorso alla guerra. Le “guerre preventive” (più esattamente le guerre preparatorie) iniziate in Medio Oriente si iscrivono in questa prospettiva.
L'obbiettivo è quello di garantire la dominazione del “Nord” ossia dei monopoli della triade Stati Uniti/Europa/Giappone sul mondo, e più particolarmente di garantire l'accesso esclusivo alle risorse naturali dell'intero pianeta per farne l'uso che conosciamo, ecologicamente disastroso.
I termini pseudo culturali invocati a questo proposito (la difesa della democrazia, essa stessa sottoposta a una erosione continua nello stesso Nord, le “guerre umanitarie”) servono a mascherare gli obbiettivi reali. Questa strategia implica per i popoli del Sud uno sviluppo straccione e niente altro. Il sistema non è sostenibile, non solo per le ragioni ecologiche conosciute, ma sopratutto per il disastro politico e sociale che lo caratterizza. Le “rivoluzioni arabe” non sono le sole risposte, appena abbozzate, alla sfida. Quelle più sostenute in America Latina, come la crescita delle lotte nel mondo intero, Europa inclusa, testimoniano la globalità di questa sfida.

*estratto dalla traduzione dalla rivista Recherches Internationales, n. 94, febbraio/marzo 2013, a cura di Sergio Ricaldone